“Il fatto è che giornalisti e opinionisti, a partire da me, si affannano a parlare dell’avvento della borghesia mafiosa che ha soppiantato i vecchi boss con la coppola storta e la lupara; ma poi, quando si scontrano con un vero borghese mafioso, con un professionista prestato alla mafia non lo riconoscono”. E’ quanto afferma la giornalista Rosaria Capacchione in una lettera pubblicata sul Messaggero dal titolo “Caro Saviano, non sono d’accordo, quella sentenza per me è giusta”. “Quando lo incontrano – spiega Capacchione, riconosciuta insieme allo scrittore Roberto Saviano vittima di minacce dal tribunale di Napoli – cercano mille pretesti per non tributargli la patente di mafiosità. Vorrebbero che fosse armato e che parlasse lo slang casalese e che indossasse la vecchia divisa, così rassicurante con le sue macchie di sangue e il suo visibile potere di minaccia”. “È anche per questo – osserva Capacchione – che quando una sentenza finisce per condannare il colletto bianco e assolvere i vecchi mafiosi, ci si straccia le vesti gridando alla giustizia negata. Ma io – fa sapere -, che quella vicenda ho vissuto da cronista e da parte del processo, penso che, aldilà dei tecnicismi giuridici e della capacità di resistenza della decisione in tutte le fasi del giudizio, la storia può essere andata davvero così. E che l’avvocato, quel giorno, per difendere i suoi clienti difese anche se stesso, che per una volta e nel processo più importante, quello che conosciamo con il nome di Spartacus, non era stato in grado di mantenere le promesse”.