“Che cosa ci può uscire da un paese così? Mica ci può uscire Gandhi, oppure Che Guevara. Sandokan. Solo Sandokan ci può uscire da un paese così”. “Nei paesi come il mio il cartello con la classica scritta Benvenuti è sempre pieno di buchi di pistole e fucili perché indica che si tratta di un territorio sotto controllo insomma chi ci entra deve sapere a quali rischi va incontro”.
Appuntamento speciale al Teatro Civico 14 di Caserta. La Rassegna di teatro a cappello Sciapò festeggia i 10 anni di repliche de Il Macero spettacolo scritto, diretto e interpretato da Roberto Solofria. Pur essendo tratto dal romanzo “Sandokan – storia di camorra” di Nanni Balestrini, il lavoro di teatro civile firmato da Solofria non indugia sulle “gesta” del noto camorrista casertano, delle quali peraltro vi è ampia traccia nelle cronache giornalistiche e giudiziarie. E quando si sofferma sulle vicende del clan che negli anni Ottanta sfidò la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, lo fa per descrivere, con un’impostazione surreale, il destino iperrealista di un paese alla deriva. Un paese in cui il cartello con la scritta “Benvenuti” è pieno di buchi di proiettili, in cui è “quasi” legale truffare le assicurazioni o esercitarsi al tiro contro il portone di una persona ritenuta semplicemente antipatica. Un paese in cui la cosiddetta modernità è giunta sotto forma di armi tecnologicamente avanzate o di auto di lusso e di telefoni cellulari, che l’uso di quelle armi consente di acquistare. Un paese in cui o si diventa un “muschillo” (la sentinella di un boss) o frutta da macerare.
Il Macero è soprattutto il racconto dell’insolita sensibilità di un ragazzo nato in terra di camorra: è la storia della sua “ottusa” caparbietà nel cercare per sé stesso una strada diversa, del suo disagio a vivere in una comunità in cui l’attitudine al delitto è divenuta scorza callosa e la banalità passa come rimedio ad ogni ingiustizia. A tutto questo il ragazzo si ribella: prima parlando, decidendo di raccontare, di non tacere, e poi abbandonando la terra in cui è nato. La sua vorrebbe essere un’emigrazione morale, oltre che economica e sociale; un’emigrazione che nasce dal rifiuto di accettare l’abitudine alla morte che fa da sfondo ad una magra e indigesta esistenza contadina. Il Macero è la storia di una fuga. È però anche, almeno nelle intenzioni, l’esposizione “chirurgica” di un taglio etico e politico, nei confronti di un inferno quotidiano, quello dell’Agro–aversano, che non genera eroi ma solo martiri. La scelta appare univoca quando il protagonista si trova a dover accompagnare il cognato all’obitorio per riconoscere e ricomporre la salma di un parente assassinato nella guerra tra clan rivali: “Quel giorno sono ripartito subito, la sera stessa, per il Nord. Ho buttato via i vestiti che ancora puzzavano di quella puzza orribile di sangue congelato, mi sono fatto portare alla stazione e mi sono detto, con rabbia, che non tornerò mai più al mio paese”.
«Uno spettacolo teatrale pensato e realizzato dieci anni prima, è sicuramente “vecchio”. In dieci anni si cambia, si matura, si fanno scelte diverse. Ma Il Macero in questi 10 anni è maturato con me, ha subito delle modifiche con il passare del tempo, non è certo lo spettacolo pensato nel Dicembre 2004, quando dopo la lettura del libro di Balestrini, prendeva forma nella mia testa e sul palco di un piccolo locale casertano. Era il mio primo monologo, pieno di cose da urlare, di rabbia, di voglia di informare. Oggi le cose che dice Il Macero le conosciamo quasi tutti, per fortuna, ma per me lo spettacolo dice sempre qualcosa in più, è sempre lì a ridarmi la voglia, la forza e il senso di fare questo mestiere, oggi più che mai» Roberto Solofria