Il grande Peppino De Filippo, nel suo pregevole tentativo di interpretare attraverso gli stilemi del teatro tradizionale napoletano l’opera di Molière ebbe così a definirlo: “Lui è un attore come me. Il più grande errore sarebbe quello di considerarlo un accademico. Mentre il suo teatro è espressione fulgida della spontaneità e, insieme, rifiuto di tutto ciò che può apparire pedante. Chi lo interpreta in tal senso vuol dire che non ha capito nulla”.

Ed è proprio così. L’esperienza maturata nel corso della sua brillante carriera è un compendio di tutto ciò che un attore può sognare: invenzioni sfolgoranti, trovate comiche eccezionali, supporti scenografici e musicali di immenso valore (basti pensare al suo compositore Jean Baptiste Lully). Benchè sia stato, nel corso del tempo, annoverato come il più classico dei classici alla stregua di altri grandi commediografi come l’illustre collega Shakespeare, il suo modo di intendere il teatro ha qualcosa di profondamente irriverente che fonda le sue radici nella migliore tradizione del teatro greco e romano.

Opere come “il malato immaginario”, il “Tartufo”e il suo più grande capolavoro “Don Giovanni” risentono in maniera inequivocabile di questa influenza sia di plautina che di terenziana memoria. Poiché, laddove la sinossi del testo può ricalcare la semplicità ( si fa per dire ) del canovaccio di Plauto, vi è indubbiamente presente e rappresentata anche la complessità psicologica dei personaggi che lo riconducono alla famosa “pietas” di Terenzio. Anzi, Molière incarna il superamento dei due grandi autori classici. Partendo dalla farsa , il genere comico, di cui si fa interprete d’eccezione, viene investito di una forte finalità morale che costituisce il vero perno delle sue rappresentazioni. Il modo di sbeffeggiare le sfere più influenti del suo tempo ( che non si allontanano da quelle attuali) trova la sua forza nella piena consapevolezza e amara constatazione dei vizi e dei difetti dell’umanità.

Supportato da un tipo di linguaggio, giochi di parole, argute ricercatezze stilistiche che mettono in risalto il paradosso dell’esistenza. E’la vera missione del teatro: indurre lo spettatore ad una riflessione alta, nobile che il tempo non può scalfire. Il famoso detto latino “ castigat ridendo mores” che trova , nello scrittore francese, il suo più alto significato. Benchè nella vita, caratterizzata da una vita coniugale molto travagliata, dalla solitudine e dall’essere circondato da sedicenti amici di indubbia moralià, non rappresentasse un esempio di rettitudine, ebbe modo di maturare un’esperienza itinerante estremamente proficua che gli garantì grande fama e anche il favore del re Luigi XIV ( Re Sole ).

Ma è da questa instabilità esistenziale che trae il meglio della sua opera e che si riflette nella recitazione minuziosa e nelle pantomime di grande espressività che anticipano il discorso, di quasi tre secoli , del teatro mimico e corporeo di Decroux. Il corpo come espressione di un concetto e potenziamento della parola recitata. E come nel più grande copione tragicomico la sua morte avverrà sul palco, la fine che, probabilmente, ogni attore vorrebbe per sé per testimoniare, qualora ce ne fosse bisogno, che l’apporto dell’arte non è meno significativo della vita. Anzi è , spesso, la loro felice fusione che generano le riflessioni più profonde che travalicano i limiti non solo dell’Uomo stesso ma del Tempo. Fulvio Pannone

 

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