3:30 del mattino, il tempo di un caffè e alle quattro si è già in barca. Il rombo del motore risuona nell’aria sbattendo sui corpi di cemento della città che ancora dorme, mentre il porticciolo-rimessa ai piedi del rione Terra, a Pozzuoli, già brulica di vita. Poi c’è l’imprevisto: il motore fa i capricci. Ciro non si scoraggia, non può. In un attimo sprofonda nella pancia della barca, un paio di mosse, due o tre colpi, e via. Pericolo scongiurato! Si, perché a largo ci sono le reti che aspettano di essere ritirate in barca e con loro i pesci, sfortuna loro, il cui destino è ormai segnato. Arrivare troppo tardi al mercato può, spesso, significare pesce invenduto e una giornata di lavoro sprecata. Qualche chilometro a largo dalla costa, dove per un po’ ci si dimentica del vergognoso stato in cui versa il litorale, devastato da incuria, speculazione ed inquinamento, è lì che, ogni giorno, appena una trentina di pescatori distribuiti su una quindicina di barchette , gettano le reti nella speranza che il bottino sia cospicuo. Salvatore e Ciro, nonostante la giovane età, sono del mestiere da circa trent’anni, fratelli e figli d’arte.
Pochi altri come loro: piccoli pescatori, con gusci di legno consumato da sole e salsedine, che a volte non raggiungono i 6 metri, spesso con un solo uomo a bordo; sono loro che ogni giorno garantiscono pesce fresco al porto di Pozzuoli, dove ristoratori e privati vanno a rifornirsi. La vendita poi, uno spettacolo. Una trattativa continua che spesso finisce in commedia. Preghiere si sommano ad ingiurie e la sostanza tragica spesso prevale sulla forma comica. Poi c’è chi cede. Ci si rifarà la volta successiva. Si badi bene, checché se ne dica, spesso, a cedere, sono i pescatori. Loro non imbrogliano. Trattano. E l’esito della trattativa, si sa, dipende dalla forza che si può esprimere in un dato momento. E’ un mestiere antico quello del pescatore, carico di suggestione per chi ne osserva i riti, faticoso come pochi per chi lo pratica. Oggi, nell’era della tecnologia, di pratiche moderne e violente come la pesca d’allevamento, che rispondo più ai bisogni del capitalismo che a quelli del fabbisogno reale della popolazione, quasi sorprende vedere ancora chi pesca con metodi primordiali, accollandosi anche il rischio di restare a rete vuota. E’ un mestiere che va estinguendosi, forse. Pratiche, queste, che, per lo più, si tramandano di padre in figlio e, probabilmente, non potrebbe essere altrimenti. Fatto sta che i figli oggi preferiscono tentare altri mestieri, magari studiano o portano semplicemente le loro braccia verso altre fatiche. “E’ na’ vità sacrificàt chella ro’ pescatòr” ripetono Ciro e Salvatore.
Luca Leva
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