“Con me lo Stato non ha voluto sentire ragioni, mai, e mi ha fatto scontare fino all’ultimo giorno di pena. Ora però sono io a chiedere ai magistrati e a tutti quelli che contano di essere ugualmente implacabili nei confronti di chi ha commesso un delitto mille volte più grave del mio”. Lo afferma, in un colloquio con il Corriere della Sera, il padre di Fortuna, Pietro Loffredo, che ha trascorso dieci anni in carcere per contrabbando di sigarette e vendita di cd scaricati abusivamente da internet. “Pretendo la verità. Non voglio il nome di un colpevole tanto per chiudere il caso e far lavorare voi giornalisti. Io voglio sapere tutto ciò che c’è ancora da sapere. Voglio che i giudici accertino se l’assassino ha fatto da solo, e io non credo affatto che sia così; se c’è stato chi l’ha aiutato o chi lo ha coperto. E perché ha ucciso Fortuna”, dice Loffredo. “Lo sapevamo tutti che in quel palazzo c’era l’inferno. Lì era già morto misteriosamente un altro bambino. Perché c’è voluto tanto tempo per venire a capo di qualcosa?”. “Continuo a chiedermi se non sia stata uccisa perché Fortuna ha magari minacciato di raccontare a suo padre tutto quello che aveva subito”, prosegue l’uomo. “Ma io cosa potevo fare, dal carcere? La cosa più assurda è che, a quel tempo, io in carcere non dovevo esserci. Avevo diritto a sconti di pena che o non sono stati calcolati, o sono stati considerati in ritardo. Ho fatto il servizio militare, avrebbero dovuto scalarmi dalla pena undici mesi. Se fossi uscito undici mesi prima – sottolinea – avrei potuto stare vicino a mia figlia, parlarle, e forse tante altre cose non sarebbero successe. Io Fortuna ho continuato a vederla ogni tanto anche dopo la separazione. Mi abbracciava forte. Forse voleva dirmi qualcosa…”.