La permanenza in carica di chi sia stato condannato anche in via non definitiva per determinati reati che offendono la pubblica amministrazione può comunque incidere sugli interessi costituzionali». Così la Consulta nella sentenza su legge Severino e caso de Magistris, citando l’art. 97 e 54 della Costituzione sul buon andamento della Pa. La sospensione dalla carica degli amministratori pubblici prevista dalla cosiddetta legge Severino non costituisce una sanzione o un effetto penale della condanna, ma una conseguenza del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alla carica o per il suo mantenimento. Lo scrive la Corte Costituzionale nella sentenza sul caso de Magistris, che ha dichiarato non fondate le questioni sollevate sulla norma. La questione relativa alla retrottività nell’applicazione della legge Severino, sollevata nell’ambito del caso de Magistris, è infondata. Lo sottolinea la Corte Costituzionale nella sentenza depositata oggi. Questo sia perché le disposizioni che discendono dall’applicazione della norma non sono sanzioni penali, come la stessa Corte chiarisce – e quindi non rispondono ai parametri dell’art. 25 della Costituzione, in base al quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Sia perché, «al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 25 della Costituzione», «le leggi possono retroagire, rispettando una serie di limiti». Limiti che la stessa Corte ha nel tempo e che «attengono alla salvaguardia, tra l’altro, di fondamentali valori di civiltà giuridica». Nel bilanciamento degli interessi in gioco il legislatore «può disciplinare i requisiti per l’accesso e il mantenimento delle cariche» e «nell’esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ha ritenuto che una condanna per abuso d’ufficio faccia sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto dalla carica». Lo scrive la Consulta nella sentenza su legge Severino e caso de Magistris.