di Riccardo D’Antonio

Ormai da qualche settimana non si riesce a guardare la tv o a leggere un giornale senza essere bombardati da una raffica di dichiarazioni e contro-dichiarazioni dei membri del governo in merito all’opportunità o addirittura ai vantaggi che deriverebbero al sistema Italia dall’abolizione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori,

che garantisce il reintegro nel posto di lavoro per chi è licenziato senza giusta causa. È ovvio che le dichiarazioni in questione non derivano da convincimenti personali o attitudini politiche, ma semplicemente provengono dalla necessità del governo di applicare pedissequamente punto per punto la letterina spedita all’Italia in estate dall’allora presidente della BCE, Trichet, e dal nuovo presidente della medesima, Draghi. In quella lettera si richiamava esplicitamente il governo (allora Berlusconi e oggi Monti) a mettere in atto una serie di misure, in ordine di importanza, per “ristabilire la fiducia degli investitori” (non per risollevare le sorti dell’Italia!). Tra queste c’era appunto, al primo posto, una “revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

 

Proprio perché c’è questo richiamo esplicito nella lettera alla revisione delle norme che regolano i contratti di lavoro dipendente, nutro pochi dubbi sul fatto che l’articolo 18 sarà quantomeno ridimensionato. Il vero nocciolo della questione però è: quali contrappesi si daranno a questa riforma? I banchieri centrali specificano l’opportunità, anzi la necessità, di stabilire un sistema di assicurazione dalla disoccupazione, la cui assenza determina il disagio della precarietà e il fenomeno dei giovani a casa con i genitori (e non l’indolenza italica come fanno pensare alcune improvvide dichiarazioni di importanti ministri dell’attuale governo che piazzano  i propri figli nei loro baronati e poi pontificano sulla piacevolezza della precarietà). Se l’Italia fosse dotata di un sistema moderno di assicurazione contro la disoccupazione, con sussidi capaci di mantenere i lavoratori più o meno nello stesso tenore di vita, anche da disoccupati, non solo l’art.18 sarebbe pleonastico, ma effettivamente si riuscirebbe a conseguire una più elevata mobilità della forza lavoro visto che lo Stato finanzierebbe i periodi di disoccupazione tout-court o necessari alla riqualificazione per  ricollocarsi in altri settori più produttivi. Con un sistema di sussidi alla disoccupazione ben organizzato, si avrebbe anche un effetto positivo sulle casse degli enti previdenziali e della pubblica amministrazione in generale, poiché non ci sarebbe più la necessità di usare false invalidità o lavori pubblici ridondanti come ammortizzatori sociali.

Cercare di conciliare le esigenze di flessibilità aziendali con la protezione dei lavoratori richiede non solo uno sforzo da parte delle une o degli altri, ma anche e soprattutto da parte dello Stato che dovrebbe fare da garante e anzi facilitare la ripresa economica. Non è vero che l’Italia non attrae investimenti perché c’è l’art. 18, l’Italia non attrae investimenti a causa della corruzione, della criminalità, di un sistema giudiziario sclerotico e saturo, della carenza dei sistemi di trasporti e comunicazione, etc (continuare l’elenco è come sparare sulla Croce Rossa). Ma è molto più semplice, anzi semplicistico, dare la colpa ai giovani “mammoni” o ai lavoratori innamorati del posto fisso a vita (che, comunque, dopo le riforme Biagi e seguenti sono sempre meno) della mancanza di crescita. Questo è il vero motivo per cui da un mese a questa parte si fanno solo dichiarazioni e non fatti: data la situazione delle finanze pubbliche è impensabile procedere ad una riforma del mercato del lavoro, che tenga conto non solo della giusta aspirazione delle aziende ad avere un costo del lavoro più economico e flessibile, ma anche della altrettanto sacrosanta aspettativa dei lavoratori di essere trattati con dignità nel momento in cui si trovassero disoccupati.

Attuare una riforma del mercato del lavoro in questo senso sarebbe auspicabile non solo per gratificare la Germania e gli intransigenti europeisti che vorrebbero  far pagare senza sconti agli Italiani il costo della miopia politica degli ultimi 10-15 anni, ma soprattutto per proiettare l’Italia nel futuro e dare una speranza a tanti giovani. Caro prof. Monti se ne ricordi al momento del prossimo decreto legge in tema di lavoro, sia per motivi di equità intergenerazionale sia per evitare di partorire un topolino.

dantonio@campanianotizie.com

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui