Il governo dei ‘tecnici’ di Mario Monti nasce formalmente il 18 novembre, quando dopo la larghissima fiducia del Senato arriva anche quella della Camera. Il presidente del Consiglio preannuncia “sacrifici”, ma assicura che non ci saranno “lacrime e sangue” e che tutti i provvedimenti saranno tesi al “rigore, alla crescita è all’equità”.Ma è in Europa che il governo muove i primi veri passi e dove Monti inizia a tessere la sua tela diplomatica per risolvere la crisi del debito sovrano e abbassare la febbre dello spread.

A fine novembre partecipa alla trilaterale con Angela Merkel e Nicolas Sarkozy a Strasburgo. L’invito sancisce il ritorno dell’Italia nel ‘club’ dei Grandi d’Europa e il premier torna in Italia forte degli attestati di stima dei ‘colleghi’ europei. Il 4 dicembre il governo vara il ‘Salva Italia’. E’ lo stesso Monti, durante la conferenza stampa in cui Elsa Fornero scoppia in lacrime, a ribattezzare così la manovra da 30 miliardi che prevede fra le altre cose la riforma delle pensioni: grazie alla quale si mettono in sicurezza i conti, ma che fa anche scoppiare il nodo degli ‘esodati’. Nonostante il plauso internazionale, a gennaio Standard e Poor’s declassa l’Italia. Il professore capisce che è ora di spingere sull’acceleratore in Europa e inizia il pressing su Berlino chiedendo che sia lasciata maggiore libertà di manovra alla Bce contro la crisi del debito sovrano. La sua tattica diplomatica è chiara: isolare la cancelliera tedesca in Europa, guadagnando il sostegno di Francia, Spagna e Gran Bretagna. Ma serve anche la sponda della Casa Bianca che Monti ottiene volando a Washington: l’appoggio di Barack Obama – e di Wall Street – è pieno, anche perché il presidente Usa deve impedire che la crisi dell’eurozona affossi la già traballante economia americana. I toni fra Berlino e Roma iniziano a scaldarsi. Intanto il governo vara a fine gennaio il decreto su concorrenza e liberalizzazioni: a differenza del ‘Salva Italia’ però sul testo influiscono le pressioni dei partiti e il risultato, a detta di molti osservatori, non è all’altezza delle aspettative. Il decreto però piace a Fmi e Ue; e lo spread inizia a calare. Una settimana dopo, il 27 gennaio, è il turno delle semplificazioni. Anche stavolta i veti incrociati delle forze di maggioranza pesano sul testo. Ma il professore strappa un altro successo diplomatico in Europa: al vertice di Bruxelles di fine gennaio evita infatti brutte sorprese sul fronte del debito nella trattativa sul Fiscal Compact. Al suo rientro a Roma boccia la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020. Ma il dossier spinoso che deve affrontare è un altro: la riforma del mercato del lavoro. Il ministro Fornero surriscalda il clima invitando a non considerare l’articolo 18 un “tabù”. I sindacati sono sul piede di guerra. Presto si capisce che dietro le parole del ministro c’é lo stesso Monti che nei suoi contatti internazionali promette di modificare lo Statuto dei lavoratori. Il governo però, stretto fra i veti di Pd e sindacati e le richieste del Pdl sulla flessibilità in entrata, rinuncia al decreto. Ma tira dritto sui contenuti: per i licenziamenti economici l’unico rimedio deve essere l’indennizzo, non il reintegro. Il Cdm vara la riforma il 23 marzo. Qualche giorno dopo Monti parte per l’Asia con l’obiettivo di allettare gli investitori d’oriente. Ma da Tokyo scatena un putiferio politico: “I sondaggi dimostrano che il governo ha il consenso, i partiti no”, dice. La reazione è tale che il capo del governo è costretto a correggere il tiro in una lettera al Corriere della Sera. Ma le scuse non bastano: Monti, con la mediazione di Giorgio Napolitano, concede qualcosa anche sulla riforma del lavoro: ammorbidisce i ritocchi all’articolo 18 e sulla flessibilità in entrata. Lo spread però torna a impennarsi e la borsa crolla. A dare una mano al professore ci pensa la Francia che archivia l’era Sarkozy aprendo quella di Francois Hollande. Ora Monti ha un utile alleato all’Eliseo per piegare le resistenze tedesche. Sul fronte interno gli alti e bassi con i partiti proseguono: il premier ‘strappa’ sulla Rai, rinnovando i vertici della televisione pubblica, e sulla giustizia ponendo la fiducia al ddl di riforma. Sul versante europeo, col sostegno di Hollande, lancia l’idea di uno ‘scudo anti-spread’ mettendo la proposta sul tavolo del cruciale vertice Ue di fine giugno. Il premier arriva a Bruxelles forte del varo della riforma del lavoro e determinato a strappare qualcosa: per riuscirci non esita a minacciare, insieme a Rajoy, il veto sul patto per la crescita se i Paesi rigoristi non accoglieranno le sue richieste. L’azione diplomatica ha successo: passa il principio di ‘condizioni’ meno severe per chi ricorra allo ‘scudo’. Monti lascia a Grilli il timone dell’Economia. Ma con il passare dei giorni si capisce che l’esito del summit Ue è meno risolutivo di quanto sperato. Lo spread riprende a galoppare. In soccorso del premier arriva Mario Draghi che a inizio agosto lancia il suo piano di acquisti di titoli di Stato per i Paesi in difficoltà. Le promesse del governatore della Bce danno respiro al governo che può partire per una breve vacanza agostana senza eccessivi timori. La temuta tempesta sui mercati non c’é, ma la partita europea non è ancora vinta. E solo a settembre, con il via libera della corte costituzionale tedesca all’Esm che Monti può finalmente tirare un sospiro di sollievo. Al rientro il governo si concentra sull’ultima grande manovra: la legge di stabilità. A sorpresa propone l’abbassamento dell’Irpef per le fasce deboli in cambio dell’aumento dell’Iva. Il testo però non piace ai partiti. Persino il fedelissimo Casini chiede modifiche. Monti è costretto ad accettare modifiche chiedendo però saldi invariati. Si trova un compromesso in Commissione ma – ed è notizia degli ultimi giorni – chiuso un caso ne scoppia subito un altro: l’election day.

 

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