di Carlo De Michele
Il dibattito aperto sul piano politico e culturale in tema di “povertà” e disagio sociale conduce ad una riflessione sulla incidenza politica e sociale dei rapporti di controllo dei processi industriali e finanziari e sul ruolo che la società civile e le sue espressioni socio- politiche, anche sul piano più strettamente locale, possono assumere.
In effetti i dati statistici delle agenzie delle Nazioni Unite sul piano mondiale e le recentissime analisi della Caritas sul piano nazionale richiamano le coscienze di tutti a prendere atto di una condizione economica generale che rappresenta, in particolare se considerata in prospettiva di tendenza, uno dei più drammatici paradossi mai registrati nella storia. Basta infatti passare dalle immagini dedicate dai media alle condizioni di vita dei paesi in via di sviluppo di tante nostre periferie degradate, a quelle dedicate a pubblicizzare un certo stile di vita per comprendere il vuoto di prospettiva di un mondo apparentemente tanto avanzato.
In realtà l’impoverimento accellerato di talune aree geografiche o segmenti di popolazione, e l’accumulazione altrettanto rapida in poche mani delle risorse, rappresentano solo gli aspetti più evidenti di quel processo, sbrigativamente sintetizzato sotto il generico ed accattivante termine di “globalizzazione”, che porta il grande capitale internazionale , “blindato” sul piano della copertura politica , a macinare e travolgere ogni esigenza, caratteristica e potenzialità delle singole nazioni , e all’interno delle stesse deille fasce più deboli, per inserire – grazie anche alle potenzialità di mezzi informatici in grado di fornire l’immediateza delle decisioni- tutto il pianeta in un solo grande mercato governato da pochi soggetti in grado di condizionare ed orientare i processi. Va da sè che questa accellerata evoluzione si orienta , concentrando in poche mani la quasi totalità delle risorse finanziarie e relegando la dirigenza politica a ruoli sussidiari , sempre più su investimenti di tipo puramente finanziario sacrificando le iniziative di tipo industriale. L’effetto più vistoso e pericoloso di questo processo si registra nel ricatto esercitato dai grandi soggetti economici nel pretendere una serie di “vantaggi” senza i quali gli investimenti verrebbero orientati verso altri paesi in grado di offrire salari sempre più ridotti e graduale eliminazione delle leggi di tutela del lavoro.
In mancanza , lo spettro – sapientemente evocato da economisti di corte e giornalisti compiacenti – della disoccupazione. E’ triste rilevare che proprio nel nostro paese un governo inesistente ed una classe politica inadeguata e divisa ha consentito a Sergio Marchionne di conseguire , nella vicenda Fiat, la specializzazione in queste non piacevoli attività. Infatti anche il nostro Paese , che pure nel ventennio 1970\1990 si era sensibilmente sottratto a questi meccanismi grazie ad un sistema politico-sociale che mediava, talvolta con efficacia ed in modo originale, le esigenze del mercato e quelle sociali si è da tempo adeguato al processo descritto con l’impoverimento progressivo di interi ceti ed una progressiva divaricazione fra il tenore di vita dei pochi rispetto ai molti.
Parimenti l’adeguamento al processo comunitario induce molti a chiedersi se stiamo procedendo verso l’Europa dei popoli o quella del club dei grandi soggetti economico-finanziari. Al riguardo giova sottolineare che malgrado i dubbi e le proteste che la Chiesa, il mondo sindacale e tanti studiosi sollevano circa la fragilità ed i pericoli di questo modello , da parte del sistema politico e dell’informazione non si registra la volontà di infrangere il pesante muro di conformismo imposto dal “pensiero unico”.
Occorre pertanto acquistare consapevolezza della globalità e complessità dei problemi per poter comprendere i fenomeni e non essere passivi destinatari di decisioni prese altrove, comprendere così che i grandi “regolatori” della economia – primo fra tutti il F.M.I. – non sono “asettici” e , per loro intrinseca natura, sono tendenzialmente ostili ad ogni forma di “welfare” e di redistribuzione del reddito. Serve così attivare una politica di difesa dei meccanismi di autonomia economica nazionale e di area geografica che resista , per quanto possibile, alle pressioni intese a condizionarne i processi. Questa fase di sviluppo incontrollato del mercato genera spesso forme di accumulazione dei profitti che nascono non da reale produzione di ricchezza ma da manovre speculative le quali per realizzarsi hanno necessità di assenza di controllli e compiacenze politiche. Appare quindi urgente il riaffermare e difendere il primato della politica quale proiezione alta delle esigenze delle comunità nazionali rispetto alle presunte “necessità” economiche che pure vanno rispettate e valutate, ma in chiave di verità e non di manovre mistificatorie.
Una politica che razionalizzi e controlli i processi e li riporti in ambiti tollerabili , smascheri le tante menzogne, finalizzi le rinunzie ed i sacrifici allo sviluppo di tutta la società e sventi la distruzione di quel complesso meccanismo di regole e di impulsi alla solidarietà senza i quali porteremmo la cultura ed il livello di vita di tante nazioni europee a livelli asiatici. In tale ottica occorre favorire una ripresa della cultura che accompagni la formazione di una classe dirigente più attrezzata e critica rispetto a modelli di sviluppo tanto complessi ed una scuola non orientata esclusivamente , cosa pur necessaria, al mondo della produzione , ma in grado di fornire mezzi culturali utili alla valorizzazione delle capacità critiche dei fututi cittadini.
Altrettanto importante appare sul piano locale operare una sintesi coordinando la vasta rete di movimenti , intellettuali, organizzazioni cattoliche e del mondo operaio che da sempre resistono a certe pretese totalizzanti. Pur tuttavia questo non è di per sè sufficiente poichè è necessario che questo fermento sia sotteso da una visione del futuro sostenuta da una “ideologia” (il termine è volutamente improprio) nella quale tutti possano condividere valori comuni e che – pur nel rispetto delle concretezze economiche – rappresenti un modello di sviluppo alternativo a quello offerto dai “guru” del capitalismo “avanzato” ma – stando agli esiti – non più” avanzante”.
In qualche modo , se si riflette con serenità, lo slogan delle migliaia di ragazzi “noi la crisi non la paghiamo” costituisce nella sua battagliera semplicità un elemento di determinazione, questa volta sicuramente politico, che si confronta con la totale assenza di proposta della politica o con la caparbia ostinazione della Marcegaglia nel volerci convincere che la crisi causata dal loro “modello” e dalle loro “regoli” devono pagarla i giovani,i lavoratori, i precari ed i pensionati. Personalmente credo che stia oggi faticosamente emergendo la consapevolezza della necessità di favorire una sorta di “solidarismo intelligente” , compatibile con una società regolata dal mercato ma non dominata dallo stesso.
Solidarismo quale sintesi di una serie di valori irrinunciabili tutelati da un personale politico non subalterno a quello economico e “intelligente” in quanto consapevole che una economia lasciata ai propri selvaggi meccanismi e priva di controlo democratico genera impoverimento e diseguaglianza, oggi per molti e domani per tutti. L’esempio concreto di quanto i principi di democrazia, anche economica, non siano vaghezze per intellettuali ma concretezza civile e politica è rappresentato – e non solo per l’Italia – dai primi trenta anni di vita democratica nel secondo dopoguerra. Una stagione nella quale si è costruto un sistema nel quale il progresso civile e sociale non ha contraddetto un grande sviluppo economico, proprio perchè la politica ha in qualche modo “governato” un liberismo che lasciato alla propria naturale dinamica , come poi è avvenuto dagli anni ottanta , ha prodotto gli attuali disastrosi esiti.
Altra dimostrazione di quanto una catena di solidarietà sociale possa, sia pur parzialmente, contrastare certi meccanismi è fornita – questa volta sul piano locale – dall’azione che le comunità, le organizzazioni dei lavoratori, le Chiese ed i loro pastori riescono a dispiegare quando evitano , chiamando a raccolta le energie di tutti , e quindi condividendo, chiusure di fabbriche , disastri ecologici o sfruttamento dei più deboli . In tale ottica appare sempre più evidente la nuova centralità e le grandi responsabilità delle istituzioni locali , per il nuovo ruolo che vede trasformarsi da erogatori di servizi a “motore” dello sviluppo e del futuro delle prprie realtà. Va pure detto che troppo spesso questa capacità non viene messa in campo , il che ci induce a sottolineare l’urgenza di lavoraread un progetto di cultura politica e sociale nuovo (ma che sappia ritrovare radici antiche) ed originale , adeguato alla svolta epocale che stiamo vivendo.
Un progetto in grado di superare la pura teorizzazione tecnico-politica che, calata dall’alto , non riesce a risolvere i problemi , se pure non è occasione di nuovi trasformismi. Al riguardo basterà rilevare che negli ultimi venti anni non è stato fatto un solo passo avanti in alcuna positiva direzione . La strada giusta è quella di recuperare una prospettiva , quella reclamata dai giovani di tutto il mondo in questi giorni, che sappia contrapporre una ideologia basata sui valori della democrazia politica e sociale a quella del’egoismo del profitto . Per il nostro paese basterebbe difendere ed applicare i principi della Carta Costituzionale, non a caso da tempo oggetto di ansia da riforma.