Con il beneplacito del Vaticano, formalizzato dall’allora sostituto della Segreteria di Stato Giovanni Battista Montini, nel 1939, “alla vigilia della seconda guerra mondiale, la Sindone allora in possesso dei Savoia fu trasferita, nel piu’ stretto riserbo, alle pendici del monte Partenio, una localita’ alle porte di Avellino dove sorge il monastero benedettino di Montevergine”.
Lo racconta oggi l’Osservatore Romano che ricostruisce un avvenimento non inedito ma poco risaputo. La permanenza della reliquia in Campania duro’ fino al 1946, quando a guerra conclusa pote’ tornare a Torino. La scelta del monastero da parte dei Savoia non avvenne, spiega il giornale vaticano, “soltanto per i requisiti di sicurezza che garantiva la zona, ma soprattutto per i legami con i monaci benedettini che affondavano le radici fin dal lontano 1433, allorche’ Margherita, figlia del celebre duca Amedeo VIII di Savoia, che tra il 1439 e il 1449 divenne antipapa con il nome di Felice V, in segno di devozione e riconoscenza verso la Madonna di Montevergine per essere scampata a un naufragio dono’ alla comunita’ monastica uno splendido affresco trecentesco di scuola senese attribuibile a Pietro Cavallino dei Cerroni”. Favori’ la scelta di Montevergine anche il fatto che l’abate Guglielmo De Cesare (1859-1884) era stato il postulatore della causa di beatificazione di Maria Cristina di Savoia, di cui in seguito divenne anche il primo e piu’ autorevole biografo. “Da allora – ricorda oggi l’Osservatore – i rapporti tra la comunita’ e i Savoia si andarono sempre piu’ consolidando e, pertanto, anche grazie a quest’amicizia di lunga data, verso la fine di settembre del 1939, si decise di trasferire presso il santuario di Montevergine la Sindone, considerati i tempi tutt’altro che tranquilli”. Per ragioni di sicurezza, dell’arrivo della Sindone non furono avvisati nemmeno i monaci, che intuirono qualcosa pero’ dalla inattesa presenza a una celebrazione nella cappella del “coretto notturno”, la piu’ protetta in caso di bombardamenti, del sacerdote torinese che aveva l’incarico di custode della Sindone. “Recentemente – rileva l’Osservatore a margine della sua documentata ricostruzione dell’episodio – e’ stata avanzata una suggestiva ipotesi secondo la quale il trasferimento della sacra reliquia a Montevergine fu disposto, in realta’, per impedire che finisse nelle mani del Fuhrer che, fin dalla sua visita in Italia del 1938, aveva sguinzagliato i suoi uomini per scovare la preziosa reliquia e trafugarla allo scopo di assecondare le manie esoteriche che condivideva con Himmler e molti altri gerarchi nazisti, come paventava lo stesso arcivescovo di Torino, il cardinale Maurilio Fossati, in un testo pubblicato nel novembre del 1946 sul bollettino ufficiale della Curia sostenendo che anche se il sacro telo fosse stato ‘rispettato dalle bombe, non sarebbe forse stato rispettato dall’invasore che si affretto’ a chiederne notizie'”. “Era noto – sottolinea il giornale vaticano -infatti, che reliquie tradizionalmente connesse con la Passione di Cristo facevano gola a Hitler al punto che, in seguito, riusci’ a impossessarsi della Lancia di Longino custodita nel Tesoro imperiale di Vienna, incaricando il colonnello delle ss Otto Rahn di cercare persino il Santo Graal”. Secondo l’Osservatore, “tuttavia, l’improvvisa irruzione nel settembre del 1943 all’interno del santuario di Montevergine delle truppe naziste, va piuttosto interpretata come una normale perquisizione”. “Se infatti i nazisti fossero stati davvero convinti di aver fiutato la pista giusta per ritrovare la Sindone di certo non avrebbero esitato – ragiona l’Osservatore – a mettere a soqquadro l’intero complesso monastico per trafugarla”. In realta’, come attesta anche un solerte cronista benedettino, poiche’ il 14 settembre 1943 i caccia bombardieri b26 americani avevano sganciato sulla citta’ di Avellino varie decine di bombe di medio calibro, i militari tedeschi sul far della sera vedendo dei riflessi di luce che partivano proprio dal santuario, subito si precipitarono a Montevergine immaginando che quelle fossero delle segnalazioni a opera di qualche spia che si celava all’interno del monastero, mentre si trattava semplicemente dei riflessi lunari sui vetri delle finestre”.