“Occorre essere uomini e donne inquieti, insoddisfatti di provvedere con tinteggiature in economia alle crepe della nostra Casa». E’ la conclusione-sintesi di un editoriale sul periodico della Diocesi di Alife-Caiazzo, Clarus, firmato dal Vescovo Valentino Di Cerbo, in cui si esorta la Chiesa che opera sul territorio a rendersi effettiva protagonista del cambiamento, per riaprire il cantiere e riprendere il cammino in quella dimensione reale più vicina al cittadino e al cristiano, in un difficile tempo di crisi, dove al senso di esasperazione delle famiglie, dovuto principalmente a problemi di natura economica e alla crisi occupazionale, occorre rispondere con speranza ed ottimismo, mediante un’azione forte, perentoria, che instilli nella gente un nuovo sentimento di fiducia, guardando alla fede come àncora di un possibile processo di cambiamento, che recuperi umanità e relazionalità nei rapporti tra le persone.
E’ l’idea di un cammino futuro che deve impegnare sacerdoti e laici, guardando al grave senso di scollamento che toglie vivacità e azione al vissuto sociale collettivo e che rischia di impoverire, spiritualmente e culturalmente, anche aree interne e svantaggiate come il Matese e l’Alto Casertano, dove l’incisività del messaggio cristiano deve riproporsi con consapevolezza e sincerità, soprattutto da parte di sacerdoti e laici impegnati. Una profonda riflessione su alcuni aspetti per i quali il Vescovo non nasconde la necessità di una severa autocritica che, anche la Chiesa locale, deve fare «contro una certa tradizione religiosa fiorente che non cambia la vita ma si ferma all’esteriorità; contro la paura di cambiare, di rimettersi in gioco, di dare operatività effettiva alle grandi intuizioni conciliari, pur condivise e proclamate; contro la paura di perdere consensi formali e di affrontare le contestazioni di credenti pigri che ci costringerebbero a fornire continuamente le ragioni e le motivazioni delle nostre scelte». Un monito chiaro e preciso, che non esclude nessuno e che assume il tono di una sollecitazione che non ammette ritardi e titubanze nella risposta che ciascun cristiano dovrà essere pronto a dare, specialmente in zone interne e in piccole realtà. Il Vescovo chiede quindi che l’ordinario delle attività parrocchiali o dei movimenti presenti in Diocesi assuma un volto “straordinario” nel coraggio missionario ancora troppo sopito. «Si corre il rischio di illudersi – scrive Mons. Di Cerbo – che la soluzione del problema sia nel particolare e non nell’essenziale». Ecco perché la fede non può essere esportata o venduta “a basso costo”, o troppo semplicisticamente «esercitando il ruolo, molto rispettato nelle nostre zone, di consumatori del sacro o di funzionari di Dio».Un invito senza mezzi termini ad evitare l’autoreferenzialità e il rischio, connesso, che la Chiesa locale, nella sua basilare dimensione territoriale, non sia più motore aggregante, perché concentrata soltanto sulle proprie azioni, sul proprio percorso, senza preoccuparsi della sua missione di fondo, quella di essere tra la gente e nel mondo: «Le nostre comunità parrocchiali – si legge sulla nota – mettono spesso all’ordine del giorno se stesse e poco la storia da trasformare nella prospettiva del Regno di Dio».
Il cambio di rotta che chiede Mons. Di Cerbo pone anzitutto una domanda diretta a tutti gli operatori pastorali, a diverso titolo: «Siamo ancora capaci di offrire modelli credibili e di formare i cristiani con il nostro apparato pastorale senza soffermarci su percentuali e consensi? ».Bisogna estendere, quindi, il raggio d’azione e sforzarsi di guardare oltre la soglia di un oratorio o di una sacrestia «perché, per chi vive nella Chiesa, è un vezzo suicida pensare che cattivi siano sempre gli altri»: permettere alla “barca” di prendere il largo e buttare le reti dove non si immagina di poter fare una buona pesca. Coinvolgere tutti a rischiare, dunque, e a non temere il cambiamento di rotta.«I riti, i sacramenti, dispensati quasi con abitudine, non fanno della Chiesa l’immagine di Cristo – precisa Di Cerbo – : bisogna domandarci quanto cuore mettiamo nel nostro servizio pastorale e nella nostra partecipazione alla vita della comunità; se la gente non viene più in chiesa dobbiamo chiederci se siamo ancora capaci di offrire modelli credibili».Il punto di partenza, o se si vuole di “ri-partenza” sta quindi, secondo il Vescovo, proprio nella Parrocchia: «Tra malesseri e paure – scrive infine Di Cerbo – spesso si opta per lo sperimentato e il sicuro, che ci permette di essere amici di tutti, di non “far muovere la barca” e di gestire la Parrocchia come una struttura di servizi religiosi in cui c’è tutto, ma forse manca la passione per le anime, la voglia di cambiare la nostra e l’altrui vita nel senso autentico indicato da Gesù Cristo, l’impegno a trasformare la società».
Accogliere la sfida richiede, quindi, un’azione in più, insolita e inusuale per i nostri tempi: «occorre essere uomini e donne inquieti, insoddisfatti di provvedere con tinteggiature in economia alle crepe della nostra Casa».