CASERTA – Il destino dei locali dell’ex biblioteca di via Roma sta suscitando un vero e proprio dibattito a Caserta. Pubblichiamo, di seguito, alcune lettere.

 

 

di Valentina Senise, studentessa del Liceo Artistico di San Leucio

Scuole occupate e autogestite per settimane, cori e urla, striscioni, strade principali riempite da cortei portati avanti da noi studenti, ormai indignati e stanchi.
È questo l’autunno delle scuole di Caserta e dintorni, un autunno di lotte per far sentire la nostra voce, per urlare il nostro dissenso nei confronti di una società che cade sempre più in basso, un sistema che non ci da spazio, eppure ne abbiamo bisogno.
Siamo giovani, siamo tanti, siamo ingombranti.
Abbiamo chiesto uno spazio di aggregazione all’amministrazione comunale di Caserta, per un progetto nato quasi un anno fa, per dimostrare a quest’Italia di adulti che ci guardano da capo a piedi, trattandoci come gli ultimi venuti, indegni di attenzione, che possiamo fare qualcosa. Anzi, possiamo fare molto.
Possiamo portare avanti questo progetto perché non abbiamo armi, non abbiamo mezzi, abbiamo solo le nostre menti, il nostro modo di pensare e di vedere il mondo, il modo di pensare di una generazione che non è solo quella dei social network, quella che non crede in niente.
Abbiamo tutto e niente, nessun appoggio da parte dei potenti ma la consapevolezza che possiamo fronteggiare la crisi che smonta l’Italia pezzo dopo pezzo ogni giorno con la sola cultura.
E allora perché non darci un spazio per i nostri progetti?
Il giorno 12 ottobre il primo di una lunga serie di cortei attraversa le strade di Caserta, si ferma di fronte alla ex-Biblioteca Comunale, immobile chiuso da tre anni e in completo stato di abbandono e liberato simbolicamente da noi studenti. Da questo momento in poi inizia la procedura per l’affidamento dei locali alle associazioni studentesche, con assemblee pubbliche, sopralluoghi con tecnici comunali, la presenza di una determina in comune ad affidarci lo spazio, fino ad arrivare a pochi giorni fa, quando gli studenti partecipanti a quest’iniziativa si sono muniti di scope, palette e stracci per ripulire lo stabile, il tutto fatto nell’attesa di un contratto effettivo che ci concedesse ufficialmente quel luogo per cui combattiamo da due mesi.
Il tutto, poi, ci viene tolto.
La concessione degli spazi agli studenti – secondo il consiglio comunale- va rivalutata e lo spazio ci viene tolto.
Perché? Perché iniziare a ripulire, a rendere vivibile un luogo in stato di degrado, un luogo fino ad allora ‘’promesso’’ dal sindaco, è definita un occupazione. Anche se al comune è presente una determina che lo concede, è occupazione. E allora si torna a casa, si accende il computer e si finisce per caso su articoli che ci definiscono ‘’piccoli talebani’’. Il nostro atteggiamento è quindi un ‘’piccoli talebani crescono’’? Il cercare una realtà diversa dalla strada, dalla discoteca, dai pomeriggi vuoti vicino al tavolino di qualche bar da ricconi del centro a parlare di quanto sia bello il maglione Fendi appena esposto in Via Mazzini? Come funziona, allora? Come ci vuole questo sistema?
Non siamo pecore, non siamo marionette, non siamo, soprattutto, piccoli talebani.
Bisognerebbe, per una volta, avere il coraggio di guardarci in faccia uno per uno e dirci cosa abbiamo di sbagliato. Non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, non tutti vogliamo solo un pretesto per far casino, non siamo la generazione di bambini troppo cresciuti che come unico pensiero ha il trovare un qualcosa da fare il sabato sera. Non siamo stupidi, non ci comportiamo da stupidi.
Chiediamo un luogo dove poterci sedere in cerchio e discutere dell’ultimo libro che abbiamo letto, chiediamo un luogo dove aiutarci tra di noi quando abbiamo bisogno di ripetizioni scolastiche, chiediamo un luogo dove fare musica, dove fare arte, dove esprimerci e rilassarci.
Perché siamo giovani, siamo tanti, siamo ingombranti, siamo costantemente arrabbiati, siamo stanchi e vogliamo guardarci intorno e vedere qualcosa di buono, per una volta.
Abbiamo solo bisogno di un futuro meno buio, perché scappare è troppo facile.

 

La sala, al primo piano è a doppia altezza, ampia, luminosa e ha un vago sapore post_razionalista (dovrò indagare sul progettista). E’ molto ospitale ed è esposta a sud. Stando dentro sei certo di vivere un vero spazio pubblico, di quelli che hanno il carattere di un luogo pensato per uno scopo preciso e non adattato all’uso come, invece, spesso accade. Le finestre su via Roma sono fenditure verticali sul traffico di questo mattino gelido, nonostante il sole. Al centro, sopra improvvisate scaffalature, confezioni d’acqua in bottiglie di plastica e, su un lato, un gruppo di sedie nere che si perdono nello spazio ampio. Alle pareti qualche striscione.

Trasuda ovunque un imminente utilizzo da parte degli studenti, per incontri e attività culturali, creatività, musica e laboratori. Una casa dove ritrovare la dimensione propria, nell’intimità degli anni. Lo stato delle cose si rivela un ostacolo apparentemente insormontabile.

Sul lato opposto alla vetrata ci sono due porte: una si apre su una stanza filtro (disimpegna i servizi igienici, una sorta di residuo post_bellico) dove il soffitto è una lezione di tecnica delle costruzioni con ferri e laterizio a vista, sottoposto ad un terrazzo pavimentato solo da una guaina bituminosa martoriata dall’incuria.

E’ bella, però, la vista verso la scuola posta sul retro dell’edificio.

Mi aspetto qualche piccione e non ne vedo, nonostante la presenza delle inconfondibili tracce con le quali presidiano il territorio di appartenenza.

Alla sala si accede dalla strada laterale attraverso una porta angusta e una scala sottodimensionata. Da qui puoi andare anche al piano ipogeo, un ambiente crepuscolare di dimensioni medie (era sicuramente un deposito) con bocche di lupo su un lato mentre sull’altro intravedi alcuni passaggi (ora negati da alcuni tamponamenti in mattone crudo, spuntati di recente, e magicamente, nel buio dello spazio). L’accesso al piano terraneo, quello che un tempo era l’ambiente principale della biblioteca (molti lo ricorderanno), è inibito da una porta in ferro ben serrata da un lucchetto. Sarà destinata alla mensa della Caritas (dicunt e si spera).

L’impressione immediata è l’abbandono, nell’accezione peggiore, e lo spreco. Il pensiero vola verso mille forme di recupero, alla possibile esaltazione di quell’ariosità e, soprattutto, della dignità che emana tutta la struttura.

E questa, in sintesi, la condizione della materia, silente in attesa di giudizio e del suo destino.

Ma, al contorno, c’è anche vitalità.

Agitazione e tensione, promesse, distacco tra norma e aspettativa, qualche disguido, disincanto e compromesso, intolleranza.

Osservo e parlo poco. Resto un paio di ore, irretito, a guardare quell’improvvisata, casuale e inaspettata sintesi della contraddizione e della spaccatura generazionale. Ovviamente torno con la mente agli anni ’70 e alle catene sulle porte del mio liceo, all’indifferenza di alcuni e all’ideologica dedizione assoluta di altri. Tento di avvicinare i punti di contatto storico, lacero la differenza temporale ma, volutamente, decido di attenermi a quanto è, senza retropensiero, né similitudini affrettate.

Presenti, molti giovani studenti, qualche mamma molto agitata e quasi tutti i rappresentanti possibili dello Stato e della Pubblica Amministrazione, tecnici e non. Pare non si ritrovi più la targa della scuola con la cornucopia dello stemma della città, coperta invece da un innocente volantino attaccato alla buona con nastro adesivo. Alcuni oscillano tra ordine doveroso da rispettare e sorridente comprensione mettendo a nudo, a tratti, un’anima pur sempre contenuta in corpi di padri e di madri, fatti di sangue. Qualcuna, tra i presenti, conserva fermamente la propria posizione adducendo la negata concessione di quello spazio per l’ampliamento della scuola e/o, in primis, motivazioni per me spiazzanti: preoccupazione d’incolumità per i piccoli alunni causabile dalla presenza di studenti “esuberanti” e poveri affamati di indubbio controllo. Sono senza parole, per la misconoscenza della solidarietà.

Con garbo (come usava dire spesso un sindaco di qualche anno fa) mi hanno chiamato gli studenti in qualità di tecnico di parte per verificare l’effettivo stato e il da farsi, in virtu’ di un contratto da perfezionare, a seguito di una determina del Sindaco Del Gaudio (un atto, in verita’, da me molto apprezzato nonostante alcune legittime e conosciute divergenze politiche). Cerco di spiegare ai giovani quale dovrebbe essere l’iter “normale” per utilizzare il luogo: i lavori edili, i costi, le autorizzazioni, la farraginosa procedura, le diverse responsabilità, le griglie contrattuali, i tempi necessari. Ma, mentre lo faccio, penso a quanto sia incomprensibile tutto questo e quanto tale insopportabile burocrazia possa essere superata dalla volontà, nella giustezza. Mi tornano in mente gli uomini di Lilliput, proprio quelli della settecentesca fantasia letteraria di Jonathan Swift ma, qui, finalmente redenti e lontani dalle futilità sulla dimensione dei tacchi o dalle beghe di corte che avevano turbato Gulliver. Un formicolare di ragazzi e ragazze (delicati, ma efficienti e finalmente responsabilizzati) che, pur se protetti e “in sicurezza”, tinteggiano pareti, riparano serramenti, spazzolano ruggine sui ferri dei solai, riparano cerniere di porte, rimuovono incrostazioni, lavano vetri, incollano marmi divelti, spatolano intonaco, tirano a lucido legni e smalti opacizzati.

Qualcuno penserà alla politicizzazione dell’evento, all’assorbimento verso improbabili consensi a favore di uni o di altri. Alla strategica affermazione da parte di capipopolo in fieri o di organizzazioni strutturate. Allo stravolgimento dell’ordine consolidato o della disciplina rispettosa.

Io immagino solo una grande festa collettiva, per il riordino della bellezza di quel luogo, ora solo oscurato dall’abbandono: una vera opportunità per la Pubblica Amministrazione, e non una preoccupazione, dispendio di energie o causa di discussione partitica.

Resta intanto la certezza che il desiderio legittimo di un utilizzo alternativo dell’ex Biblioteca Comunale (bene di tutti noi) sia per gli studenti che per la Caritas (Cultura&Solidarieta’), comunque vada, fende le acque melmose di questo tempo immobile.

Mi aspetto una piena, immediata e unanime convergenza da parte della Pubblica Amministrazione di Caserta.

Una illusione?

 

Raffaele Cutillo

 

Gentile redazione giornalistica

Sono la madre di uno dei “piccoli talebani” ed ho sentito il dovere di rispondere ad un articolo scritto qualche giorno fa dalla professoressa Stefania Modestino e pubblicato su un noto quotidiano online locale. L’articolo, se così possiamo chiamarlo, infanga, come solo il mondo degli adulti politicizzato ed abituato a vergognose e subdole manovre sa fare, l’evento che ha visto protagonisti un gruppo di giovani casertani e la loro battaglia per la “riabilitazione” dell’ex biblioteca comunale in via Roma, a Caserta. L’obiettivo, come oramai noto, è quello di realizzare un centro di aggregazione sociale e garantire quindi un nuovo spazio di ritrovo sicuro e stimolante ai nostri ragazzi.

Questa lettera aperta ovviamente non nasce dall’esclusiva esigenza di difendere l’azione che ha visto protagonista anche mio figlio (di cui comunque stimo la libertà intellettuale e l’impegno civile dimostrato), ma l’operato instancabile ed oggettivamente ammirevole di un gruppo di giovani che in un momento storico di confusione, di delusione, di disillusione e “di caduta degli dei” trovano la forza e l’energia; la volontà di combattere per dei valori reali e non negoziabili. Valori che combattono i vizi sempre più diffusi della corruzione, dell’opportunismo e dell’intrallazzo politico. Io il 6 dicembre c’ero, mia cara professoressa Modestino, alla cena organizzata dai ragazzi nell’ex biblioteca per festeggiare l’obiettivo raggiunto. Va detto che effettivamente mio figlio ed i suoi compagni hanno forzato le cose, stanchi di aspettare e dopo essersi sorbiti per lungo tempo i vari “si..poi si vedrà” e i vari “ci vuole tempo…sapete la burocrazia”.

Lavoravano a questo progetto da due anni, hanno più volte incontrato il sindaco e i vari assessori, chiedendo un dialogo ed un segnale di apertura da parte di chi si è posto al servizio della gente ed il cui compito è quindi quello di realizzare il bene della comunità. Far politica significa ancora questo, giusto? Ebbene: nel suo articolo, cara prof, lei ha parlato di un “atto di pura illegalità, evidente atto di disprezzo per le regole e delle procedure contemplate dalle norme e dalla legge”. Poi ha aggiunto:“Se vuoi una cosa prendila fa a botte, forza porte e serrature, urla e minaccia”.

No,mia cara professoressa, i ragazzi non hanno fatto a botte, non hanno minacciato ma civilmente urlato a gran voce ciò che sussurrato con educazione nel chiuso dell’aula consiliare era stato ignorato ripetutamente. La sera della cena sono salita attraverso una scala sudicia, ma nulla rispetto a come era, mi dicevano. Mi sono ritrovata in una grande sala ordinata e pulita, sulla destra diverse poltroncine messe in circolo e a terra delle flebili candele che scaldavano il cuore più che l’ambiente (con un generatore e fili volanti sono riusciti ad illuminare alla meglio l’ambiente).

Al centro della sala un lungo tavolo con piatti, bicchieri posate di plastica e una fila ordinata di circa trenta ragazzi che si apprestavano a gustare un piatto senegalese, per altro gustosissimo, cucinato dalla moglie di uno di loro. Si respirava un’aria di soddisfazione: avevano lavorato tutto il giorno con ramazza e detersivi e quel luogo spoglio e grigio risplendeva nei sorrisi di tutti. Alle dieci e trenta, come avevano promesso alle forze dell’ordine, hanno lasciato l’ex biblioteca senza creare alcun disordine, senza minacce e senza la “violenza” della quale ha parlato lei nel suo pezzo. Ho avuto modo anche di conoscere Vincenzo, laureato in filosofia. Pietro, laureato in Scienze Politiche, ha anche scritto un libro che prima o poi presenterà al pubblico. Ho inoltre incontrato alunni liceali e lavoratori di diverse nazionalità, tutti uniti da un intento comunque e soprattutto da un impegno duro quanto volontario.

Concludendo, quindi, colgo l’occasione per rivolgermi al primo cittadino invitandolo a proseguire il dialogo già instaurato con la giovane frangia della cittadinanza attiva e propositiva che anche Caserta può offrire. Il tutto per fare qualcosa per la vita e lo sviluppo sociale dei ragazzi; in una città che non offre nulla ai giovani (a quei giovani che non si possono permettere di trascorrere il loro tempo libero ogni sera in locali e bar). Pio Del Gaudio colga un’opportunità che non dovrebbe farsi scappare, magari dando una mano ai ragazzi concretamente e rendendo l’ambiente più salubre e accogliente.

In fine mi rivolgo a quei genitori che come me sono preoccupati per il futuro dei loro figli e vivono nella paura della loro corruzione fisica e mentale: non lasciatevi forviare dai “si dice che”, dal pregiudizio, dal pettegolezzo e dalla polemica strumentale e figlia dei secondi scopi. Fate come me: andate e vivete in prima persona gli slanci energici e magari anche teneramente ingenui dei vostri ragazzi.

Giulia Isotti

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