Ampliata, dalla Cassazione, la tutela per i lavoratori che, a causa delle legittime rivendicazioni che portano avanti nei confronti del datore, finiscono per essere licenziati. I supremi giudici, infatti, hanno equiparato il licenziamento ritorsivo a quello discriminatorio, questo ultimo vietato dallo Statuto dei lavoratori e dalla legge 108 del 1990 che impone la riassunzione immediata del dipendente epurato anche alle aziende con meno di 15 addetti.
Cosi’ i magistrati di Piazza Cavour hanno restituito il posto ad Andrea M., magazziniere di una ditta di Palermo che commercializzava detersivi e che lo aveva messo alla porta perchè voleva i soldi dello straordinario e dei permessi retribuiti. Senza successo l’azienda ha sostenuto che le norme sul licenziamento discriminatorio non sono “suscettibili di applicazione analogica” in caso di licenziamento ritorsivo. La Suprema Corte ha replicato che “non può dubitarsi che il licenziamento discriminatorio” è “suscettibile di interpretazione estensiva sicchŠ l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, attuati in seguito di comportamenti risultati sgraditi all’imprenditore, che costituisce cioò l’ingiusta ed arbitraria reazione quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa”. Fallito pure il tentativo di giustificare il licenziamento con la crisi, comprovata dalla contrazione degli ordini e dalle dichiarazioni al fisco. Pochi mesi prima era stato assunto un altro magazziniere ed Š franata la tesi della necessità di ridurre il personale. “Pur non essendo sindacabili le scelte imprenditoriali sotto il profilo della congruità ed opportunità – scrive la Cassazione – si ritiene palesemente pretestuosa la dedotta esigenza di riduzione del personale in presenza dell’assunzione, pochi mesi prima del licenziamento, di altro dipendente destinato allo svolgimento, in gran parte, degli stessi compiti assegnati al dipendente licenziato”. Adesso è definitivo il diritto alla riassunzione di Andrea M. e la condanna del datore a risarcirgli tutti gli stipendi persi fino al reintegro, e a versargli 52 mila e 500 euro per straordinario e permessi non pagati.