La norma sulla privatizzazione dei servizi pubblici così com’é non va. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 della Finanziaria-bis 2011 che disponeva la possibilità per gli enti locali di liberalizzare i servizi pubblici, dai quali la stessa manovra escludeva

però l’acqua, cavallo di battaglia della campagna dei referendari contrari alle privatizzazioni. Nel giugno 2011, infatti, la liberalizzazione dei servizi pubblici fu sottoposta a due quesiti referendari e vinsero i sì, cioé i favorevoli all’abrogazione della legge allora in vigore. Il motivo centrale per cui la Consulta ha stabilito l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 della Finanziaria-bis 2011 è che viola l’articolo 75 della Costituzione, cioé quello che vieta il ripristino di una normativa abrogata dalla volontà popolare attraverso referendum: la Corte, infatti, rileva che quell’articolo ripropone nella sostanza la vecchia norma che il referendum voleva cancellare e anzi la restringe e la peggiora. E a dire il vero per Federutility la sentenza “era abbastanza prevedibile” soprattutto “guardando alla sequenza delle norme” che sono state “riproposte quasi uguali”; per il direttore della Federazione delle utilities, Adolfo Spaziani, è “evidente che la norma si reggeva su basi non solide”. In ogni caso la bocciatura alla ‘privatizzazione’ dei servizi pubblici giunta dalla Corte Costituzionale ridà nuova linfa ai movimenti dell’acqua che parlano di “una grande vittoria”: viene ribadita – “con forza la volontà popolare espressa il 12 e 13 giugno 2011 e rappresenta un monito al governo Monti e a tutti i poteri forti che speculano sui beni comuni: l’acqua e i servizi pubblici devono essere pubblici”. Non mancano le reazioni politiche. Il Pd, con Umberto Marroni, capogruppo Pd di Roma Capitale e Marco Causi, deputato Pd in commissione Finanze, parla subito di “bocciatura della delibera del sindaco Alemanno” sull’Acea. Il leader dell’Idv Antonio Di Pietro dice che “vigilerà, fuori e dentro il Parlamento, affinché il responso dei cittadini e la sentenza della Corte costituzionale vengano rispettate”. Per Paolo Ferrero è “una vittoria della democrazia”. Il governatore della Puglia Nichi Vendola ricorda che si tratta di un risultato della Puglia (che ha presentato il ricorso): “La Puglia ha vinto, ma soprattutto, con la Puglia, hanno vinto la democrazia e il popolo del referendum. La nostra perseveranza nella battaglia che abbiamo condotto, giorno dopo giorno, ci ha dato ragione”. Per Legambiente, tra le associazioni che si sono battute a favore dei referendum, “giustizia è stata fatta”. Giudizi e osservazioni mossi da quello che è l’esito della decisione della Consulta: bocciare la legge in vigore, tornando di fatto alla precedente. Ma la sentenza della Corte va letta nelle sue pieghe. Il testo, infatti, rileva che l’intento referendario era di superare le limitazioni, rispetto al diritto comunitario, delle ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (compreso quello idrico). La nuova normativa, osservano però i giudici costituzionali, “non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni” della legge abrogata: da un lato “rende ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi”, dall’altro la lega al rispetto di una soglia commisurata al valore dei servizi stessi, oltre la quale è esclusa la possibilità di affidamenti diretti: soglia che scende rispetto a quanto previsto nel testo precedente, passando da 900 mila a 200 mila euro. Con la sentenza della Consulta vengono bocciate anche le successive modificazioni comprese quelle apportate dal governo Monti a dicembre; allo stesso modo – rileva Vendola – sarebbero “a rischio quelle contenute nel decreto sulla Spending review che mira a fissare gli stessi limiti, oggi abrogate dalla Consulta, sulle società in house”.

 

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