Brutta storia quella culminata negli arresti di P.I., ragazzino di 16 anni, indicato come l’assassino di Gennaro Ramondino, ventenne ucciso lo scorso 31 agosto a Pianura, quartiere della periferia occidentale attraversato da nuove e vecchie faide di camorra. Raggiunto in cella dall’ordine di arresto, il 16enne ha confessato. Ha ammesso gran parte delle accuse: avrebbe ucciso l’amico poco più grande di lui, per assecondare la richiesta del boss emergente, poi l’occultamento di cadavere. Candeggina per lavare il sangue dallo scantinato, il trasporto del cadavere di Gennaro Ramondino in una zona di campagna, la benzina, le fiamme per far sparire ogni traccia. Soldi inzuppati di sangue (li aveva la vittima in tasca) buttati nelle fogne dopo il delitto. Lui, però, il 16enne reo confesso, nega solo l’ultima accusa: «Non me la sono sentita di dargli fuoco, non me lo potete chiedere, era un mio amico». Rieccoli, quelli della (nuova) paranza dei bimbi. C’è un’altra emergenza dopo quella del 2015, quella capitanata da Emanuele Sibillo (noto come ES17) nel centro storico. Qui siamo in periferia, ma la storia non cambia. Difeso dalla penalista napoletana Antonella Regine, il 16enne era già in cella, per il tentato omicidio di un altro emergente, nell’interminabile faida per la conquista di un sottoscala o di una panchina, posti dove allestire le piazze di spaccio. Inchiesta condotta dal pm dei minori Ettore La Ragione, torniamo all’orrore dello scorso 31 agosto. In una campagna del quartiere occidentale, il corpo dilaniato del 20enne. Era un generoso – si legge nelle carte – offriva bottiglie di vodka ai più giovani. Perché ammazzarlo? Secondo il racconto del 16enne, la decisione sarebbe stata assunta da uno degli adulti del gruppo, un uomo di 30 anni, sposato e padre di due bambini: «Mi disse che dovevo uccidere Gennaro. Non studio, non lavoro, sto sempre con loro. Non avrei mai preso un’iniziativa di questo tipo, perché Gennaro era amico mio. Passavamo tante ore assieme, stavamo spesso in giro, se avessi voluto avrei potuto ucciderlo in ogni momento, ma non era proprio nei miei pensieri». Ma allora cosa è accaduto lo scorso 31 agosto? Siamo in via Comunale Napoli, spaccato cresciuto in modo abusivo alle porte della città. L’appuntamento è nello scantinato, sotto casa del presunto mandante (che al momento risponde di favoreggiamento e di occultamento di cadavere). Spiega il 16enne: «Mi ha dato la pistola e mi ha detto di ucciderlo. Dovevo farlo io, perché minorenne, non avrei rischiato niente. Le cose andarono così: Gennaro era andato nel sottoscala, io l’ho seguito, l’ho visto risalire, ho puntato l’arma e lui mi ha fissato. Il primo colpo l’ha solo sfiorato, ma si è conficcato nella parete dello scantinato. Poi ho capito che, se lui fosse stato armato, avrebbe replicato. E gli ho sparato al petto». Il resto della storia è il solito copione pulp, in una città dove le estorsioni si regolano a colpi di sequestri di persona e di sevizie ai rivali e dove si impugnano armi anche a 14 anni. È il caso di E.S., il 14enne del Vasto accusato di tentato omicidio di un coetaneo per rimarcare la leadership del proprio gruppo a due passi da Palazzo Fuga, in pieno centro storico. Ma torniamo ai veleni di Napoli ovest. Dopo il delitto, sono stati gli adulti a mettersi in azione: la candeggina per lavare il sangue, grossi teli per nascondere e trasportare via il cadavere. Ma il corpo era troppo pesante, non si riusciva a schiodare da terra. Una fatica toglierlo dalle scale, fino a farlo rotolare nell’auto che la vittima aveva parcheggiato. Poi il rito delle fiamme, lo stesso usato venti anni fa durante la faida di Scampia, quando P.I. neppure era nato. «No, non l’aggio appicciato io…», avrebbe detto. E ancora: «Questo non potete chiedermelo, perché Gennaro era amico e io l’ho fatto solo perché i grandi me lo hanno chiesto». Non studia, non lavora – spiega – né ha incassato un soldo per il suo primo delitto: un battesimo del fuoco con l’omicidio da minorenne, quello che ai clan di camorra non fa paura, «perché poi alla fine non ti succede niente».