Le carenze investigative, il sospetto di depistaggi della camorra e l’ombra dell’errore giudiziario: la Commissione Antimafia, che nella passata legislatura ha svolto una sua indagine, chiede di fare luce sul massacro di Ponticelli, un efferato fatto di cronaca, avvenuto la notte tra il 2 e il 3 luglio del 1983 in un rione della prima periferia di Napoli, «uno dei primi casi mediatici della storia criminale italiana». Era la Napoli della guerra tra la nuova camorra organizzata di Cutolo e la nuova famiglia. Due bambine, Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, di 7 e 10 anni, furono seviziate e uccise. Per quelle morti sono stati condannati tre operai, all’epoca ventenni, incensurati: Giuseppe La Rocca, Luigi Schiavo e Ciro Imperante. I tre, oggi sessantenni, sono uomini liberi dopo 27 anni di carcere, e continuano a dirsi innocenti. «Il massacro rischia di essere una storia di sole vittime, le due bambine e i tre ragazzi», ha detto la deputata M5s Stefania Ascari, prima firmataria della relazione sul massacro approvata all’unanimità dalla Commissione Antimafia a settembre, allo scadere della scorsa legislatura. A suo avviso ci sono gli elementi per chiedere la revisione del processo: «Ritengo che si tratti di un grave errore giudiziario». «Trovo possibile, ma altamente improbabile – dice il professor Alfonso Furgiuele, penalista che rappresentò le parti civili – che la Giustizia si sia sbagliata per ben sei volte. Ricordo, a tutti, che ci sono stati tre gradi di giudizio e tre revisioni che sono giunti tutti alla stessa conclusione». Nella relazione, la Commissione solleva molti dubbi sulla maniera in cui sono state condotte le indagini. Si legge che «i tre condannati hanno dichiarato, anche nel corso del giudizio, di aver subito percosse e torture da soggetti in borghese». Un fatto ribadito in una conferenza stampa alla Camera anche da Luigi Schiavo: «In caserma persone in borghese mi hanno torturato, fatto girare sulla sedia per disorientarmi, dato da bere acqua e sale, colpito con un frustino per cavalli».
Inoltre, scrive ancora la Commissione Antimafia, non era ancora stata introdotta la legge che avrebbe portato lo Stato a farsi carico economicamente dei collaboratori di giustizia e dei loro familiari, e in quel clima «i pentiti erano soliti vendersi al miglior offerente e non di rado è accaduto che abbiano accusato di reati gravi persone estranee ai fatti contestati, in cambio di denaro da parte dei veri colpevoli». Quindi, «quel che emerge da una pur incompleta analisi della vicenda in esame è che soggetti fortemente indiziati di questo delitto siano stati completamente ignorati ovvero arrestati e poi rilasciati senza che la loro posizione si stata realmente vagliata; mentre per i tre condannati sembra essere stato creato un sistema di forze interagenti, finalizzato a forzare le prove per farle convergere a loro carico». Questo perché «consegnare alla giustizia non uno, ma ben tre colpevoli, significava ordire quel genere di ‘lieto finè nel quale tutti speravano». «Si doveva accontentare l’opinione pubblica. Ma non avete fatto giustizia per le bambine», ha aggiunto un altro dei tre uomini condannati, Giuseppe La Rocca: «Voglio la verità, lo dovete fare per le nostre famiglie e per i genitori delle bambine morte» La fine anticipata della legislatura ha interrotto l’indagine parlamentare, quindi non ha consentito di accertare quale sia stato il ruolo della camorra e dei pentiti. La relazione di propone come un «lascito» per la prossima Commissione.