Era in attesa del giudizio di secondo grado dopo la condanna a 23 anni per omicidio. Da settembre aveva cominciato a rifiutare il cibo e le sue condizioni di salute sono rapidamente peggiorate. Il coma e poi la morte a Napoli, in una struttura ospedaliera. Per mesi i suoi familiari avevano chiesto la scarcerazione per motivi di salute ma non gli era stata mai accordata. E’ la storia di Stefano Crescenzi, 37enne romano, accusato dell’omicidio di Giuseppe Cordaro, avvenuto a Roma nel 2013.
La denuncia arriva dai suoi difensori, Daniele Fiorino e Dario Vannetiello, che già da tempo avevano sollecitato la scarcerazione del loro assistito. In base a quanto affermano i due penalisti, il dramma di Crescenzi inizia nello scorso mese di settembre quando comincia a rifiutare il cibo in carcere, a Livorno. “Il Dap affermano gli avvocati ritiene che Crescenzi non potesse rimanere presso un ordinario istituto penitenziario e decide di trasferirlo da Livorno al centro clinico della casa circondariale di NapoliSecondgliano”. Malgrado il trasferimento, le condizioni di salute del detenuto peggiorano ancora e, dopo pochi giorni dal suo arrivo a Napoli, i sanitari della struttura penitenziaria “si rendono conto che non avrebbero potuto apprestare le cure al detenuto, le cui condizioni diventavano incontrollabili”. La direzione sanitaria del penitenziario partenopeo, dunque, decide per il trasferimento al Cardarelli e di lì all’Ospedale Giovanni Bosco, dove sarebbe poi deceduto. Nelle settimane precedenti alla drammatica accelerazione degli eventi, i legali avevano chiesto una immediata scarcerazione senza ottenerla. Una prima istanza di revoca della misura cautelare era stata depositata presso la Corte di Assise di Roma. Nel documento, in alternativa alla scarcerazione, si chiedeva di “adottare urgentemente una decisione che consentisse al detenuto di ricevere le cure adeguate in un centro specializzato, da individuarsi da parte della Corte o da parte dei parenti”. In ottobre un secondo tentativo, alla luce di un quadro clinico in rapido peggioramento con Crescenzi, a detta della difesa, già “in stato di coma”. Gli avvocati scrivono al Primo Presidente del Tribunale di Roma affermando “che il detenuto sarebbe morto se non fossero stati effettuati i giusti interventi e le opportune cure in una struttura specializzata che poteva essere scelta dai familiari del malato, non appena fosse venuta meno la misura cautelare”. Non ottenendo risposta, il 19 gennaio scorso, i difensori hanno depositato un’ulteriore istanza indirizzata alla Corte di Assise d’Appello di Roma. Richiesta, quest’ultima, corredata della certificazione sanitaria dell’ospedale nel quale era stato intanto trasferito l’imputato, “attestante che il detenuto era in imminente pericolo di vita” dell’ospedale nel quale era stato intanto trasferito l’imputato. “Ancora scrivono gli avvocati difensori i giudici del Tribunale del riesame, che avevano già ricevuto l’allarmante comunicazione dei sanitari dell’Ospedale Giovanni Bosco circa il rischio di morte del Crescenzi nel corso dell’udienza del 13 gennaio scorso, hanno deciso di prolungare la procedura decidendo di conferire un incarico peritale, con inevitabile prolungamento della decisione, rinviando all’udienza del 25 gennaio”. Stefano Crescenzi è morto prima.