C’è l’orchestra che suona Kurt Weill da Prada, c’è l’attrice Barbara Sukowa che canta come un usignolo. E noi pensiamo alla Lola di Fassbinder, alla Germania e alle sue crisi, quelle che hanno percorso tragicamente tutto il secolo scorso. Ma non siamo a teatro, siamo intorno al grande palcoscenico di feltro grigio dove sfila una moda quasi amara, di una violenza intellettuale che per fortuna sparirà dalle vetrine, verrà trascurata dalle cabine di prova e non comparirà certo negli armadi, perché i vestiti, comunque siano stati pensati, vivono poi la vita che trovano, si adattano e dimenticano la loro pensosa origine. Una premessa per dire che stavolta, da Prada, il cimento intellettuale per capire la signora e descrivere la sua collezione è di notevole portata, più arduo del solito. I vestiti sembrano usciti dal secondo atto di una pièce teatrale già andata in scena con la collezione maschile, lo scorso gennaio. Stessa atmosfera rigorosa, alto e basso mescolati duramente, cultura sofistica e semplicità ostentata.

Eleganza mostrata con trascuratezza, quasi per caso, senza concedere nulla: tutto è profilato di pelo di montone, la pelliccia più povera tra le pellicce diventa decoro, l’unico concesso. Nessun ricamo, nessuna applicazione ma bordure di shearling, rigonfie, esagerate, che segnano orli, cuciture, revers e tasche di giacconi e cappotti, creando un contrasto tosto di rosso nero oro. Oppure profili in pelle dorata e argentata che segnano graficamente i capi, le spalle, le pinces, il giro vita, la forma dei reggiseni, le spalline degli abiti sottoveste. Tutto è sottolineato, c’è perfino un tocco sadomaso, ma di quelli concessi all’intellighenzia europea quando una trentina di anni fa rifletteva angosciosamente sull’eterno duello servo-padrone. Miuccia Prada non vorrebbe mai che si parlasse della sua moda come di un canovaccio da salotto intellettuale, lei che si è sempre vantata di essere modaiola, punto. Ma come si fa a non pensarci, se lei stessa ci spiega che quel disegno grafico della grande V colorata, intorno allo scollo degli abiti, è preso dal pullover della cameriera muta nel film “Le lacrime amare di Petra von Kant”? E siamo sempre lì, Fassbinder, anni 70, le riflessione sui rapporti di dominio e sudditanza, insomma sul potere politico e privato.

C’è tanto rosso a pensarci bene (anche lo strangolino al collo) eppure il tono generale della sfilata non è colorato. Ci sono anche molte trasparenze, ma non rimane in mente niente di sexy, non come si intende oggi. I sandali e gli stivali a tinte forti hanno il tacco ortopedico, le stampe ricordano le fantasie grafiche del costruttivismo russo trasportate nella Repubblica di Weimar. Ah la Germania, sempre lei, con i suoi drammi, le sue cadute, i suoi sensi di colpa, il suo teatro. I film con Hanna Shygulla e la danza di Pina Bausch, la stessa Sukowa che stasera canta ma che ha interpretato anche la filosofa e scrittrice Hannah Arendt. Tutto un mondo indimenticabile “molto presente nella mia testa” confessa Miuccia. Nostalgia di quegli anni? “Ho bandito la nostalgia dalla vita, non le si può mai lasciare il campo”. A distrarci e a rendere tutto più leggero e modaiolo, ecco in prima fila due ospiti inusuali: Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti, venuti a rendere omaggio anche a Barbara Sukowa.

 

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