A poco più di un anno dalla scomparsa del grande regista britannico Ken Russell, voglio ricordare, ai grandi appassionati di cinema come me, l’immenso apporto linguistico e visivo che ha trasmesso a questa nobile arte. Russell ha rappresentato una delle più autentiche eccellenze in questo campo ed è riuscito laddove altri hanno fallito.
Nelle sue opere cinematografiche è presente una costante continuità del messaggio in termini di immagine visiva. Mentre alcuni suoi colleghi si perdevano in misere logiche di natura commerciale, pur essendo dei promettenti registi, lui ha dato spazio ad un excursus cinematografico dove la forza delle immagini rappresentava l’assoluto perno della sua brillante opera. Forza dell’immagine fine a se stessa dirà qualche critico? Beh, questo è un aspetto su cui dibattere a lungo. L’immagine è rappresentazione ed esprime, difficilmente, qualcosa di vuoto. Diventa fine a se stessa quando si carica di messaggi troppo didattici, moralistici e che vanno a sensibilizzare in maniera fittizia gli occhi dell’ingenuo spettatore.
Il regista britannico aveva un suo deciso modo di fare cinema che era assolutamente in contrasto con queste regole che sono alla base di un discorso improntato e finalizzato più ad un contesto puramente commerciale che artistico. A differenza di altri si è sempre messo in gioco evitando mai le critiche, spesso ingenerose, del pubblico. Che , invece, dall’alto della sua presunzione non ha mai perso occasione di definirlo volgare e, per usare un termine a lui caro, kitsch. Ken Russell era definito il Fellini d’oltremanica e questa definizione non è affatto un azzardo. Il suo continuo rivolgersi al mondo dei sogni lo ricollegano inevitabilmente al grande regista riminese.
Ma le differenze sono comunque marcate tra i due, poiché Fellini attraverso il suo apporto onirico dava un’interpretazione malinconica dell’esistenza dove l’uso frequente di figure circensi creavano un voluto contrasto tra sogno e realtà. Per Russell il mondo onirico rappresentava, nel suo spropositato modo di metterlo in scena, una sola cosa: la paura della morte. Esorcizzarla ed evidenziarne gli aspetti più macabri. Per ricavare da essa serenità attraverso l’uso di altri strumenti che, invece, si rifanno ad un discorso decisamente più di “pulsioni vitali” come la danza e il sesso. Anche i frequenti riferimenti alla religione rientrano in questo discorso.
Nei suoi film la continua ricerca di strane angolazioni fanno in modo che i suoi flashback abbiano un significato quasi proustiano dove il ricordo fa da cornice a situazioni di vita estremamente vissute e mai scontate. Lo schermo, sempre invaso di colori, il suo montaggio, di chiara derivazione surrealista, sono la chiara rappresentazione di un modo di fare cinema sfrontato, estremo, barocco e sempre in bilico tra cattivo gusto e magnificenza. La settima arte, quindi, vista come pulsione oscura e attraverso i suoi risvolti più repressi. Si ammirano le sequenze immaginifiche delle sue scenografie e coreografie dove nulla è lasciato al caso. Il ricorrere ad emotivi primi piani che mettono in risalto la profonda solitudine degli esseri umani e che si vorrebbe celare, invano, con il comportamento provocatorio e fuori le righe.
Ma di base c’è sempre e solo l’uomo con le sue paure e il rapporto con se stesso che non è mai nulla di definito ma, invece, imperscrutabile. Come la vita.
Fulvio Pannone