SALERNO – “E’ tutta la vita che aspetto”, dicono le tre donne attorno al tavolo per una partita a carte che somiglia più a una resa dei conti che a un passatempo. Aspettare non significa una stasi del corpo e dell’anima: è il momento in cui il rimosso riaffiora per trasformarsi in reclusione o libertà. “Attese I II III” è lo spettacolo diretto da Licia Amarante presso la Chiesa di Sant’Apollonia che segna il nuovo successo dell’Officina Teatrale L.A.A.V.
La prima messinscena, “Una lunga attesa”, incarna la scrittura asciutta e vibrante di Fabrizio Romagnoli in tre interpreti che scommettono tutto su se sesse. Lo spettatore non riesce a sottrarsi alla loro capacità di coinvolgimento. L’aggressiva sfrontatezza di Vale (Antonella Valitutti) è il suo modo per ricordarsi che è viva, Mickey (Adriana Fiorillo), la donna perfetta e sterile che ha generato solo la sua condanna, appare madre e sorella di Flami (Francesca Severino), la folle bambina che attiva nel suo disordine mentale i turbamenti delle compagne. Sono tre carcerate, come mostrano le diapositive alla fine dell’atto, ma la prigione fisica non opprime quanto quella dello spirito. Non hanno saputo sottrarsi alla crudeltà del mondo e ora, in un beffardo contrappasso, vedono riflesso l’una nell’altra l’attendere una felicità che resta un miraggio.
Romagnoli, che si divide tra regia, scrittura e interpretazione, si dice inoltre pienamente, soddisfatto del Workshop di recitazione condotto con Emilia Tafaro, in cui Marika Mancini e Roberta Romano del L.A.A.V, unitamente a Massimo Villani, Italo Perna e Giovanni Mennella, hanno messo a frutto i suoi insegnamenti sul ritmo, le pause, il dominio di differenti registri espressivi. “La credibilità dell’attore passa anche attraverso il grottesco-precisa – per permettere una sintonia con il pubblico. È del resto la vita stessa a essere grottesca”. Nel monologo di Valeria Francese “Della stessa sostanza della madre” la Valitutti costruisce con attenzione profonda a ogni sfumatura il ritratto di una donna ostaggio della maternità, che sa essere crudele espropriazione di un’esistenza.
Nel momento in cui il figlio e la donna si scambiano i ruoli ed è il primo ad attendere la seconda per iniziare un nuovo percorso, attraverso la voce fuori campo del piccolo che è eco dell’inconfessato e del desiderio, l’attesa si fa gioiosa metamorfosi del tempo: non quello del Padre Dio che lo ha inventato, aspettando che gli uomini ricambiassero il suo amore, ma quello della Madre, artefice di una sensibilità non allineata. Ne “Le voci di Penelope” di Itziar Pascual Ortiz la sotterranea violenza della nostalgia si rinnova riunendo sullo stesso palco Penelope e due donne di oggi che si sostengono a vicenda una volta abbandonate dai loro amanti. Le attrici del primo atto creano figure al centro di una rinascita che le rende libere e non più semplici compagne.
L’Ulisse di ieri e di oggi (Mario Ferrara), che scandisce le loro vicende con diapositive e suoni, quasi si illudesse di essere il loro regista, non può che assistere a una perdita che è ritrovarsi. Non è un caso che il rumore del mare – ovvero dell’infinito – si faccia più intenso quando le tre protagoniste difendono la propria identità. Gli oggetti di scena sono quasi tutti in blu, il colore sospeso tra la fine e l’inizio, il non tempo di chi si appresta ad accogliere il futuro. Proprio nella persistenza di quella tonalità, che è persistenza del sentimento, si aprono porte sul possibile destinate, con gioia e dolore, a non richiudersi più.