di Riccardo D’Antonio

Venerdì Standard & Poor’s, una delle tre principali agenzie di rating, ha annunciato il downgrade delle prospettive sul debito a lungo termine dell’Italia e di altri 8 stati europei, tra cui la Francia. Nelle ore immediatamente successive a quest’annuncio c’è stata un’ondata di reazioni critiche e indignate da parte dei principali leader politici, che reclamavano circa una presunta ingerenza indebita da parte di un’agenzia, privata, che si arroga il diritto di giudicare, più o meno in conflitto di interesse, delle sorti di intere nazioni. In verità, seppur cattiva, la notizia non è stato un fulmine a ciel sereno, anzi, e, a ben vedere S&P ha fatto un’analisi, forse cinica, ma piuttosto veritiera e condivisibile della situazione attuale. A dicembre, prima della conferenza europea a Bruxelles , l’agenzia americana aveva avvisato i paesi europei che se i negoziati, per risolvere a livello europeo la crisi, non fossero andati a buon fine, ci sarebbe stata la possibilità di una diminuzione dei voti sull’affidabilità dei governi europei.

Cosa che puntualmente è avvenuta dato che in effetti a livello europeo non si è ancora arrivati ad una soluzione condivisa. Standard & Poor’s addirittura precisa che il summit di dicembre “non ha prodotto risultati di ampiezza sufficiente per affrontare i problemi finanziari dell’area Euro”, inoltre “non ha fornito le risorse o la flessibilità operativa necessarie per rinforzare le operazioni di salvataggio” e , infine, non ha nemmeno “fornito abbastanza supporto a quei paesi europei soggetti ad una crescente pressione dei mercati”. Secondo l’agenzia di rating, i governi europei hanno prodotto una diagnosi sbagliata del problema, cioè che la causa dell’infezione sia da ricercarsi principalmente nella “dissolutezza” economica dei paesi “periferici” dell’area, accanendosi poi con una cura che combattesse unicamente i deficit di bilancio, che sono solo una parte del problema. Il vero nocciolo della questione risiede nelle divergenti dinamiche competitive dei paesi e nei crescenti sbilanci commerciali tra i paesi “centrali” e i paesi “periferici”. Pertanto cercare di avviare un processo di riforme basandosi semplicemente sull’austerità di bilancio “rischia di essere auto-distruttivo, poiché la domanda interna tenderà a calare in linea con le crescenti preoccupazioni dei consumatori circa la sicurezza del proprio lavoro e il calo del reddito disponibile (causato dalle tasse, ndr), facendo calare le entrate fiscali dei governi”.

 

Nel caso specifico dell’Italia, S&P aggiunge anche che l’abbassamento del voto è legato anche all’aumento della vulnerabilità al rischio di riuscire a rifinanziare il debito, dato che la maggior parte di esso è detenuta di investitori stranieri, e che “l’aggravarsi dei problemi politici, finanziari e monetari all’interno della zona euro“ stanno aumentando la rischiosità di questi finanziamenti per gli investitori stranieri. Il downgrade riflette anche il fatto che i costi del debito pubblico sono cresciuti notevolmente e verosimilmente rimarranno elevati per un periodo piuttosto lungo, con effetti negativi sulla crescita (dato confermato anche oggi dal governatore della Banca d’Italia, Visco). Il governo italiano dovrà anche affrontare una difficile scelta nel 2012-2013: pagare tassi di interessi altissimi ( per gli ultimi 10 anni) intorno al 7%, per continuare ad avere una maturità media del debito elevata o indebitarsi a breve per approfittare della finestra di liquidità fornita per i prossimi 3 anni dalla BCE? Questa seconda alternativa, seppur vantaggiosa nel brevissimo, potrebbe costare caro all’Italia se la situazione dovesse ulteriormente aggravarsi nei prossimi anni. Sorprendentemente, il voto negativo non è da attribuirsi alla situazione politica italiana, che anzi S&P giudica positivamente, dato che l’attuale governo è stabile, è riuscito ad imporre misure impopolari e potrebbe anche essere in grado di implementare riforme a supporto della crescita nella prima metà del 2012. Proprio i piani del governo per introdurre le liberalizzazioni potrebbero avere un “effetto positivo sulla competitività del paese” e, nel corso degli anni aumentarne di conseguenza “l’affidabilità creditizia”. Proprio sulla capacità da parte del governo di imporre le fatidiche liberalizzazioni si gioca, secondo gli analisti, la partita fondamentale della crescita e quindi sulla possibilità di uscire dalla crisi. Infine l’agenzia americana avvisa anche che prevede una possibilità su tre di un ulteriore taglio del rating nei prossimi 2 anni e in particolare questa evenienza risulta legata a: “peggioramento delle condizioni macroeconomiche generali con pressioni deflattive” o ad un fallimento da parte del governo tecnico (per l’incapacità di imporre le riforme o per elezioni anticipate).

A conti fatti, mi sento di condividere questa analisi e vorrei anzi incitare il governo ad aumentare gli sforzi per incidere significativamente sulle potenzialità di crescita del Paese, concentrandosi non solo sulle “liberalizzazioni” (che sono solo necessarie, ma non sufficienti per assicurare un balzo in avanti della nostra economia), ma anche sul miglioramento delle infrastrutture materiali e immateriali (in primis il sistema giudiziario e la burocrazia).

Riccardo D’Antonio

dantonio@campanianotizie.com

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