di Mario De Michele
Non è facile dare risposte semplici a domande complesse. Figurarsi se è possibile fornire spiegazioni compiute con un articolo. Non darò risposte. Né spiegazioni. Cercherò soltanto di raccontare la mia storia. Per quanto possa interessare a qualcuno. Dal quel maledetto 14 novembre del 2019 cambia la mia vita. Mi invitano le tv nazionali. Mi chiamano eroe. Non era vero. Se avessi saputo quello che sarebbe avvenuto dopo non avrei rifatto le stesse scelte. Lo confesso: non avrei parlato di camorra. Per paura? No. Per la mia famiglia. In quel periodo mi sentivo immortale. Non temevo per la mia vita. Non era eroismo. Era inconsapevolezza. Mancanza di lucidità. Persi completamente il controllo. Io, garantista incallito, mi trasformai in un Torquemada dei poveri. Puntai l’indice contro tutto e tutti. Colleghi perbene come Raffaele Sardo, amici come Nicola Baldieri. In tanti, troppi, senza colpe finirono sotto la mia scure. Chiedo venia a tutti. Lo faccio per egoismo: devo togliermi un peso insopportabile dallo stomaco. A qualcuno di loro l’ho detto di persona. Agli altri lo scrivo. Spero valga a qualcosa. Non chiedo di essere scusato. Non me lo merito. Chiedo di essere compreso. Ero avvolto in una bolla. Mi sentivo invincibile. Invece ero caduto in un baratro. Oggi posso dirlo. Allora non lo capivo. Nel frattempo c’è tanto altro. Ci vorrebbe un libro, che non scriverò, per raccontarlo. Arrivo al dunque. A un certo punto “tutto mi fu chiaro, direbbe Tolstoj. Ma, ripeto, non è facile dare risposte semplici a domande complesse. Quindi mi limiterò alla superficie. È giusto così. La verità vera la conoscono in pochi. Non confesserò mai le ragioni di quella che è apparsa a tutti una follia. Ho simulato un reato. Questo conta. Lo so. E per questo devo pagare. Ho già scontato un anno di sospensione dall’albo dei giornalisti. Non ho fatto appello all’Ordine nazionale dei giornalisti contro quella decisione giustissima. Sono finito sotto inchiesta. Era il minimo. Ho subito ammesso le mie colpe. Non sono crollato durante l’interrogatorio del pm della Dda Vanorio, un galantuomo, come ha scritto qualche giornalista male informata. Ho confessato tutto già di primo mattino, all’atto della perquisizione presso la mia abitazione. Il circo mediatico si scatena. Tutto previsto. E scontato. Passo per il peggiore degli uomini sulla faccia della terra. Per dirla con Esenin vengo sommerso dalla fitta sassaiola dell’ingiuria. Ci sta. Ma in tanti, quelli che mi conoscevano da decenni, mi sono stati accanto. Dovrei citare troppe persone che mi hanno sostenuto e aiutato a scorgere la luce in fondo al tunnel. Lo faccio di striscio ringraziando con tutto il cuore Marcello, Salvatore, Stefano, Claudio, Luigi, Francesca. E una mosca bianca con la emme maiuscola. Lui mi ha capito. La lista è lunga. Un rosario di nomi. Servirebbero ore per sgranarlo tutto. Strano per uno che è un simulatore. O no? La vicinanza di chi sapeva chi era Mario mi ha salvato da un anno di depressione. Ore e ore a fissare il muro. Al confronto il pessimismo cosmico di Leopardi era un pranzo di gala. Una cosa, che sembra un paradosso, posso dirvela: mi ha salvato il giornalismo. Quello che mi aveva scaraventato nel baratro. Ho simulato un reato. Ma non ho scritto una virgola che non fosse vera. Dal mio punto di vista la Procura Napoli Nord mi ha appuntato una medaglia al petto. Sul piano deontologico sono inattaccabile. Dalle inchieste di Campania Notizie sono nate indagini delle forze dell’ordine che hanno trovato riscontri oggettivi. Sotto il profilo giornalistico sono intonso. Impeccabile. Nessuna delle ipotesi di reato ascrittemi riguardano la mia professione. Ho scelto di patteggiare per chiudere una parentesi drammatica della mia vita. Non potevo e non volevo sottopormi a un processo che nella migliore delle ipotesi sarebbe durato 10-12 anni. Con gli avvoltoi pronti a puntare l’indice ad ogni udienza. Sia chiaro, non mi nasconderò mai dietro il lavacro della persecuzione giudiziaria. I pm Sozio e Vinci sono stati irreprensibili. Non c’è stato alcun accanimento. La macchina della giustizia, seppur farraginosa, funziona. Va detto. Ma ero in debito con la mia famiglia. Con don Peppino, Giuseppina, Enrica e Giuseppe. Per colpa mia hanno vissuto due anni di inferno. Un grazie non retorico va a mia moglie. Un punto fermo. Un’ancora di salvataggio. Era ora di finirla. Di chiuderla qui. Vanno bene anche i 3 anni e 10 mesi di condanna con pena sospesa. Se avessi optato per il patteggiamento all’indomani dell’inchiesta a mio carico me la sarei cavata al massimo con un anno e mezzo. Non avevo la lucidità di farlo. Ho sbagliato. Ma concedetemi le attenuanti generiche di uno stato psico-fisico alterato. Sono alto un metro e 80. In quel periodo arrivai a pesare 57 chili. A scanso di equivoci: non ero incapace di intendere e di volere, come ho detto io stesso al perito incaricato dalla Procura. Ma mentalmente ero finito fuori strada. Dicevo al mio avvocato, che è anche un caro amico: “Perché dovrei ammettere anche ciò che non ho commesso?”. E lui mi rispondeva sempre allo stesso modo: “Il patteggiamento è una strategia processuale, non è un’ammissione di colpevolezza”. E codice alla mano, lo dico agli avvoltoi, è proprio così: “Il patteggiamento non è né ammissione di colpa né di giustizia ma di “convenienza”, convenienza dell’imputato o indagato e convenienza del pubblico ministero”. A me è convenuto voltare pagina. Ci sono riuscito. Da ateo non credo nei miracoli. Ma non mi spiego come abbia fatto in pochi mesi a cestinare la depressione (grazie Gianfranco), a rimettermi in gioco, a tornare in forma mentalmente e fisicamente e a risalire la china fino a lavorare meglio e più di prima. Non è stata la mano di dio. Quando il male oscuro mi portava a vedere il sole nero la mosca bianca, con la Emme maiuscola, mi disse: “Nella vita c’è sempre una seconda possibilità”. Allora non credetti a una parola. Col tempo ho capito che aveva ragione Raffaele. Nella vita contano gli affetti, gli amici veri, i rapporti umani, la salute dei propri cari. Tutto il resto è una corsa affannosa per tagliare il traguardo del nulla. Un incessante superamento di pietre di inciampo sparse sul difficile percorso dell’esistenza. Ora sono un padre, un marito, un figlio diverso. E un giornalista diverso. Sereno con me stesso. Con la coscienza a posto. Non mi crederà nessuno ma se sono sopravvissuto allo tsunami è anche merito di Machado: “Tutto passa e tutto resta, però il nostro è passare, passare facendo sentieri, sentieri sul mare… Viandante non esiste il sentiero, il sentiero si fa camminando”. Questa è la mia storia. Ora parola agli sciacalli.