Tra il 10% e il 15%. Numeri da flop. Altro che rivoluzione fiscale: le ultime stime dei commercialisti sulle adesioni al concordato preventivo biennale riportano il governo con i piedi per terra. Percentuali basse, incassi magri. E grandi problemi in vista per Giorgia Meloni, che conta di utilizzare il gettito del patto tra le partite Iva e l’Agenzia delle Entrate per tamponare le richieste che arrivano dalla maggioranza. Ventiquattr’ore decisive per capire a quanto ammonterà un “tesoretto” che fino a qualche settimana fa era stimato al Mef in due miliardi. Mai messo nero su bianco nei decreti attuativi della riforma fiscale. E neppure indicato tra le coperture della legge di bilancio.
Le aliquote Irpef
Ma il bottino agognato è ben indicato nel decreto fiscale che accompagna la manovra, dove è scritto che le risorse saranno destinate «prioritariamente» alla riduzione delle aliquote Irpef. La questione, però, è tutta qui: quanti soldi si riusciranno a raccogliere? Le previsioni dell’Associazione nazionale dei commercialisti (Anc) non lasciano affatto sperare in un recupero dell’ultim’ora. «Il sentiment che percepiamo nelle ultime ore è quello di un’adesione molto bassa, tra il 10% e il 15%» di una platea potenziale di 4,5 milioni di contribuenti, dice a Repubblica il presidente dell’associazione, Marco Cuchel.
La clip in tv
Eppure il governo ci spera ancora. Al punto che ieri sul profilo Instagram del ministero dell’Economia è ricomparsa la clip, diffusa in tv e sui social negli scorsi giorni, che invita i titolari delle partite Iva ad aderire al concordato che «conviene». A loro e allo Stato. Ai primi perché potranno mettersi in regola o migliorare la propria pagella fiscale pagando una mini imposta, tra il 10% e il 15%, sulla parte di reddito concordato che eccede quello dichiarato nel 2023. E non solo. Pagheranno le stesse tasse, quest’anno e il prossimo, anche se nel frattempo guadagneranno di più rispetto al reddito pattuito con le Entrate. E zero controlli per due anni. La convenienza per il governo è invece tutta legata all’incasso che serve a tagliare l’aliquota Irpef del 35%, di uno o due punti, per i redditi fino a 50 mila euro, come chiede Forza Italia. Il partito di Antonio Tajani vuole anche di più: l’estensione dello scaglione fino a 60 mila euro.
Oltre gli 85 mila euro
Ma non tutti sono d’accordo: la Lega ha prenotato una parte del gettito del concordato per estendere la flat tax oltre la soglia attuale degli 85 mila euro e ridurre così il peso fiscale che grava proprio sulle partite Iva. Le opzioni sono differenti, ma lo sguardo è comune, rivolto al ceto medio. Non a caso. L’ultimo report di Itinerari previdenziali rivela che il 15% dei contribuenti paga il 63% dell’Irpef. Sono 6,4 milioni, quelli che dichiarano redditi sopra i 35 mila euro. «Il 75,80% dei contribuenti dichiara invece redditi da zero fino a 29 mila euro, corrispondendo solo il 24,43% di tutta l’Irpef, un’imposta neppure sufficiente a coprire la spesa sanitaria», si legge in un passaggio dello studio. La legge di Bilancio ha complicato il quadro: i tagli alle detrazioni per i redditi oltre i 75 mila euro «rappresentano un aumento di tassazione per chi contribuisce di più». Eppure la destra al governo aveva promesso di abbassare le imposte anche al ceto medio, dopo l’operazione fiscale che si è concentrata sui redditi medio-bassi. La speranza è affidata al concordato. Il fallimento del patto tra partite Iva e Fisco può generare effetti collaterali. Difficili da spiegare. E da gestire.