Una stilettata ai “conservatori” Vendola e Fassina, una punzecchiatura a Berlusconi, un secco no allo schema destra-sinistra in Europa, ma soprattutto un appello affinché dopo il voto i riformisti dei vari partiti collaborino per il bene del Paese. Davanti alla platea dei liberal del Pd – riuniti a Orvieto da Enrico Morando, Stefano Ceccanti, Giorgio Tonini – Mario Monti sveste i panni del ‘candidato’ a caccia di consensi, per indossare quelli del professore. Il risultato è una lunga disamina del tema oggetto del dibattito,

‘Riformismo vs Populismo’, in cui i riferimenti all’attualità politica sono rari e poco affilati. Con il risultato che il professore, forse stanco per l’intenso lavoro di selezione dei candidati, appare cauto. Già dalla premessa si percepisce che il tono non è da campagna elettorale. Monti, ascoltata l’approfondita relazione di Antonio Funiciello, direttore scientifico dell’associazione di cultura politica, premette: “Non sono più capace di tenere relazioni introduttive, probabilmente mi riaddestrerò per quel mestiere”, dice accennando alla possibilità che presto potrebbe tornare a fare solo il professore. Segue una lunga disamina delle questioni europee. In cui non manca un accenno al Cavaliere che – ricorda – accettò quel six pack propedeutico al Fiscal Compact e al rientro del debito. Ma è sulle ragioni del crescente populismo che concentra il suo intervento. Ne cita tre: l’inefficacia di alcune politiche europee, come ad esempio la mancanza di “coordinamento della fiscalità” e di una “riconciliazione del mercato con il sociale”; la crisi dell’Eurozona e il dominio della “creditocrazia” che genera disaffezione e pregiudizi reciproci anche nei Paesi del Nord; l’assetto istituzionale comunitario, distante e poco comprensibile per i cittadini. Ed è parlando di quest’ultimo aspetto che Monti mette in guardia da facili ricette: “A chi dice ‘bisogna che la politica europea somigli di piu’ a quella nazionalé io rispondo ‘Dio ce ne scampi'”. E nel farlo cita “l’inadeguatezza degli schemi politici classici” a cominciare da quello “destra-sinistra”. Perché se la Commissione europea, che ha il compito di promuovere l’integrazione, ma anche di “guardiana” dei trattati, avesse un colore politico l’Eurogoverno difficilmente potrebbe continuare a svolgere il suo ruolo. Nessun riferimento esplicito alla situazione italiana, dunque. Anche se il professore lo ha detto più volte: di fronte all’emergenza, l’unica distinzione che si deve fare in Italia è fra riformisti e conservatori. Un ragionamento che infatti lo conduce alle imminenti elezioni. Ricorda come le decisioni “essenziali” ormai si prendano in Europa; ecco perché è indispensabile “attrezzarsi” in modo che già nella costituzione del governo si scelgano le persone giuste, quelle che hanno capacità di dialogo internazionale. Altrimenti il Paese perde prestigio e “scompare” dal tavolo delle decisioni “fondamentali”. Perciò l’auspicio del professore è che, “qualunque sia l’esito delle elezioni, si faciliti la cooperazione tra i punti riformisti che esistono più o meno in tutti i partiti”. Chi remi contro il cambiamento lo dice poco dopo. Riprende i nomi citati dal relatore che lo ha preceduto: Fassina e Casini, Vendola e Bocchino. Un’ elencazione “pittoresca”, ironizza, in cui compaiono “esplicite e forti presenze conservatrici”. Un chiaro riferimento al leader di Sel e al responsabile economico del Pd, visto che Udc e Fli – precisa – hanno “creato meno difficoltà sulle riforme”. Parlandone, però, si dimentica che Fassina non siede in Parlamento: “Ah, quindi non è ‘onorevole Fassina’?”, risponde ironico a Ceccanti. In fondo, aggiunge, “i laureati alla Bocconi sono influenti anche nei luoghi dove non siedono…”.

 

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