Un danno erariale di circa tre milioni e mezzo di euro. Cagionato alle casse del consiglio regionale nel solo biennio 2011-2012 da 60 componenti del parlamentino campano su 64 membri finiti nel mirino della Corte dei Conti. I magistrati contabili hanno concluso la prima parte, quella più corposa, dell’indagine a carico dei consiglieri eletti nel 2010 nell’ambito dell’inchiesta su fondi per i portaborse. E ieri, in occasione della seduta dell’assemblea, i finanzieri hanno notificato le restanti richieste di deduzioni dopo la prima tranche di venerdì scorso su disposizione del procuratore contabile Tommaso Cottone e dei sostituti Grasso e Capalbo (il fratello di quest’ultimo ha ricevuto di recente l’incarico di capo dipartimento della segreteria generale del consiglio regionale). Una raffica di avvisi. Che ha colpito quasi tutti. Si sono salvati solo Enrico Fabozzi, Lucia Esposito, Carlo Aveta e Ugo De Flavis. Gli unici in grado di rendicontare in modo adeguato i costi per l’impiego di collaboratori e per le spese per beni e servizi (articolo 40, ex articolo 33, della legge regionale 18 del 2000). E’ stata invece giudicata insufficiente la documentazione prodotta da Stefano Caldoro. Anche il governatore dovrà, entro 30 giorni, presentare le deduzioni con la rendicontazione delle spese. Così come tutti gli altri consiglieri, a partire dal presidente dell’assemblea Paolo Romano. In tutto 60.

Il parlamentino campano è composto da 61 membri incluso Caldoro, ma l’indagine ha riguardato 64 persone perché tra il 2011 e il 2012 ci sono state tre sostituzioni di consiglieri sospesi in quanto raggiunti da misure cautelari. Per il biennio sotto esame ogni consigliere regionale ha percepito per i portaborse e per spese per beni e servizi 59.392 euro (30.987 per il 2011 e 28.405 per il 2012. Anita Sala ha incassato circa 90 euro in meno per il 2012. Calcolatrice alla mano, sono in totale poco più di 3,5 milioni di euro. Soldi spesi, secondo i pm contabili, sulla base di una “semplice” autocertificazione, senza la “dovuta analitica documentazione giustificativa in relazione alla concreta gestione dei fondi”. Gli inquirenti sostengono che nessuno dei 60 consiglieri ha prodotto, a fronte della somma ricevuta, alcun documento comprovante la spesa sostenuto. Da qui l’accusa di danno erariale in quanto in “assenza di idonea giustificazione, deve ritenersi che per ogni singolo consigliere la somma incassata sia stata impropriamente percepita”. I membri del parlamentino invece sostengono che la legge non prevede l’obbligo di rendicontazione. Ma i pm contabili contestano che il “rimborso spese” è finalizzato ai contratti di collaborazione e per forniture di beni e servizi, per cui “non essere tenuti a fornire alcuna giustificazione della spesa non esime i consiglieri di utilizzare i fondi solo per le finalità previste dalla legge e quindi di essere obbligati a dimostrare la conformità delle spese effettuate”.

 

Il ragionamento degli inquirenti si fonda sul fatto che non trattandosi di un’erogazione automatica ma collegata ad una chiara finalità e ad un’espressa richiesta “al fine di non camuffare tale rimborso come un ennesimo contributo a fondo perduto, era ed è doveroso consentire una ricostruzione documentale delle spese dichiarate”. Peraltro, aggiungono i pm, si sarebbe dovuto documentare le spese anche per motivi fiscali. Se l’accusa degli inquirenti fosse accolta dai giudici della Corte dei Conti, i consiglieri regionali dovranno restituire 59.392 euro a testa. E nelle casse della Regione ritorneranno circa 3,5 milioni di euro.

 

Mario De Michele

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