Sembra uscita dalle pagine di un libro di James Ellroy, ma potrebbe anche essere la protagonista di un film di David Lynch: con la conturbante Lana Del Rey il pop ha trovato la sua nuova lolita, decisamente noir. Nonostante il suo primo album ufficiale, ‘Born to die’, esca il 31 gennaio, questa venticinquenne dello stato di New York
con una manciata di singoli (estratti da un cd ritirato dal mercato) è già diventata un fenomeno per la critica, che l’ha eletta rivelazione dell’anno, e per i milioni di persone che hanno visto i suoi video su Youtube. Merito di un’immagine da diva retrò anni 40 – lunghi capelli ondulati, ciglia finte e bocca polposa – e di una voce suadente e malinconica, che ha ammaliato il ristretto pubblico del suo primo showcase milanese. Inguainata in un tubino di pizzo nero, accarezzandosi fianchi e capelli con mani curatissime, Lana ha inanellato una a una le ballate già note del suo repertorio, quelle cliccatissime su internet, da ‘Blue jeans’ al singolo ‘Video games’, sfatando la diceria che – dopo una non memorabile esibizione al ‘Saturday night live’ – la vorrebbe più come prodotto di studio che come vera artista. A confondere le acque ha contribuito lei stessa, abbandonando il suo vero nome, Lizzy Grant, per quello d’arte, che abbina Lana Turner e un modello d’auto. Una scelta simile a quella di Marilyn Manson, artista-personaggio che Lana ricorda da vicino, anche se spiega che “un nome diverso non significa che io sia una persona diversa, ho solo cercato qualcosa di bello da accompagnare alla mia musica”. Ad alimentare la confusione tra persona e personaggio, come nel caso della sulfurea star Manson, anche una serie di dichiarazioni estreme sulla morte, diffuse ad arte dalla sua biografia ufficiale. Esternazioni come “con la mia musica voglio distruggere delle vite” o “il sogno americano e ‘American psycho’ stanno arrivando a rappresentare la stessa cosa”, che lei di persona si precipita a smentire scherzosamente. Certo, l’attrazione per il lato oscuro è presente nei suoi testi, a partire da quel ‘Nati per morire’ che dà il titolo al suo album, ma tolti i panni da diva e le ciglia finte è difficile immaginare come una dark lady questa figlia di un ricco industriale. Anche se lei poi racconta che “un giorno, quando avevo 11 anni, mi sono svegliata in preda all’angoscia, realizzando all’improvviso che tanto io quanto i miei cari eravamo destinati a morire, e da allora questa consapevolezza non mi ha mai abbandonata, ha gettato un’ombra sulla mia vita, influenzando i miei studi e il mio modo di scrivere”. Questo lato dark, “che ci accomuna tutti perché fa parte della condizione umana”, trova sfogo nella sua immagine da ‘Dalia nera’ e nelle sue strazianti ballate di amori naufragati, eppure “scrivere – confida – è una delle poche cose che mi rendano felice. Per me è un modo di disegnare piccoli quadri del mio passato, costruendo una sorta di album dei ricordi”. Sfogliando questa raccolta fotografico-musicale si incontrano il ritratto di una ragazza che stava per perdersi dietro alle amiche festaiole (‘This is what makes us girls’) e al ragazzo malato di gioco d’ azzardo (‘Off to the races’). “Quando avevo 15 anni ero infelice e annoiata e trovai questo gruppo di ragazze cool ed eccitanti, con cui iniziai ad andare ai party e ad avere un sacco di problemi, dopo quell’esperienza – ricorda – non ho mai più avuto amici della mia età, ma solo più grandi, interessati a una vita più tranquilla”. Da allora Lizzy, sbarcata a New York non ancora maggiorenne, ha affidato la gestione del suo lato oscuro a Lana, al personaggio che definisce una “Nancy Sinatra gangsta”, che vuole la fama per non dover più temere la solitudine. E la conquista con un pop drammaticamente cinematografico e un look da “Lolita che si è persa nel quartiere”.