“Non sono casi straordinari”, dice Maiwenn, 35 anni, origine maghrebina, al terzo film, un talento del nuovo cinema francese. In Polisse, che ha avuto il record di nomination (13) ai Cesar, gli oscar del cinema francese, più di The Artist, c’é lo scorrere di una vita quotidiana che fa orrore perché gira intorno al tema tabù della pedofilia.

Il film, il premio della giuria al Festival di Cannes, uscirà in sala da Lucky Red oggi in 50 copie. Dentro ci sono le vite qualunque della Brigata di protezione dei minori di Parigi, persone che si siedono in ufficio e devono rivolgere ai bambini domande tipo “esattamente dove ti ha toccato tuo padre”, o ascoltare le risposte di adolescenti tipo “l’ho succhiato perché altrimenti non mi ridava il mio telefonino, sai era uno smartphone”. Un racconto scioccante cui la recitazione naturale degli attori, tra cui la stessa Maiwenn e il nostro Riccardo Scamarcio in un cameo, aggiunge un realismo da documentario sullo stile di un altro bel film francese di pochi anni fa, La classe di Laurent Cantet. Le storie che racconta sono tutte vere, “anche se rielaborate” con tutte le variabili possibili degli abusi e vere anche quelle dei dieci poliziotti della brigata che la regista descrive come persone grandemente appassionate del proprio lavoro e piene di umanità. “Dopo aver fatto questo film guardo i poliziotti con un occhio diverso – dice Maiwenn – sul set li abbiamo conosciuti, trascorso con loro una parte della nostra preparazione. E’ stata una scoperta. Chi lavora nell’unità minori – spiega la regista – sceglie di stare proprio lì ed è una scelta forte perché da quegli incubi che vedi non ti risvegli mai”. Il film è choccante: in primo piano c’é un feto abortito di una ragazzina violentata forse dal padre, un istruttore di ginnastica che nel bagno della palestra abusa dell’allievo, una bambina che confessa alla madre che il padre la ama ‘troppo’, due adolescenti che si filmano in pose ammiccanti ad uso di Facebook, un nonno che senza consapevolezza racconta che in fondo non fa niente se si struscia un po’ alla nipotina. “Prima delle riprese abbiamo dovuto far leggere ad una istituzione di protezione minori la sceneggiatura e una volta approvata non poteva essere modificata. Non era semplice: i bambini scelti nel cast dovevano dire certe cose, sapere che si parlava di pedofilia, avere accanto sul set i genitori e uno psicologo. Ma la cosa commovente – ha detto Maiwenn – è stata che i più grandicelli di loro hanno detto di aver accettato il film per solidarietà con i bambini che avevano passato quei guai. Sapevano che si trattava di storie vere”. Lavorare in un contesto come quello della pedofilia e degli abusi è difficile, “si è coinvolti, non si riesce mai ad uscirne”, prosegue la regista. Infatti, le loro storie private sono un disastro, famiglie che difficilmente restano unite e così finisce che il gruppo “si protegge l’uno con l’altro, si sta sempre insieme” e se un’operazione va bene festeggiano in discoteca o cenano tutti insieme, se va male sono tristi e piangono l’uno sulla spalla dell’altro. Come quando sono costretti a dividere con strazio un bambino africano dalla madre che dopo sei mesi di vita in strada si rivolge alla polizia per un tetto caldo al figlio o come quando tolgono i bambini dalle loro famiglie in un campo nomadi. Il finale è ambivalente: il piccolo atleta fa il saggio in un’altra palestra, una poliziotta apre la finestra e si butta giù. Era stata promossa e spostata ad un altro settore, per lei la brigata minori era la vita.

 

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