Il Reddito e la pensione di cittadinanza funzionano come misura contro la povertà ma non come “aiuto” per l’inserimento nel mondo del lavoro. La conferma arriva dai dati dell’Inps che ha riscontrato come il 70% di quanti hanno iniziato a percepire il beneficio tra aprile e giugno del 2019 lo aveva ancora nell’ultimo semestre del 2021. Un paper dell’Istituto previdenziale spiega anche come il fenomeno risenta inevitabilmente della pandemia e dell’aumento delle difficoltà nella ricerca del lavoro. Nel complesso, sono state circa 4,65 milioni le persone coinvolte, circa 2 milioni di famiglie, con una spesa che sfiora i 20 miliardi. «La persistenza – spiega l’Inps – sembra essere soprattutto legata alla nazionalità del richiedente, alla composizione del nucleo, all’area geografica di residenza, a indicatori economici». In pratica tra le famiglie che hanno iniziato a prendere il beneficio nel 2019 i «persistenti» sono prevalentemente al Sud e nelle Isole. A fine 2021 «quelli da più tempo presenti nella misura hanno caratteristiche più sfavorevoli rispetto ai nuclei di recente ingresso», viene spiegato nel paper. E nel trimestre aprile-giugno 2019, «su 100 soggetti beneficiari del Rdc, quelli ‘teoricamente occupabilì sono poco meno di 60. Di questi: 15 non sono mai stati occupati, 25 lo sono stati in passato, e meno di 20 sono ready to work ovvero hanno una posizione contributiva recente, in molti casi con NASpI e part-time». In pratica quindi, i beneficiari del reddito sono in gran parte lontani dal mercato del lavoro. «La misura – si legge – riguarda effettivamente chi è a rischio di esclusione sociale». Due percettori su tre risiedono al Sud o nelle Isole (67% in termini di persone, 62% di nuclei, a dicembre 2021). Ma lo squilibrio è anche spiegato «da indicatori di disagio economico locale (alto tasso di disoccupazione, basso livello di istruzione, mancanza di servizi adeguati). È dunque il contesto a spiegare una parte dei divari dell’incidenza». Un gap che rivela quanto sia grave il deficit in termini di formazione e la necessità di puntare sulla riqualificazione delle competenze.
E il ministro del Lavoro, Andrea Orlando vede nel fondo europeo ‘Surè lo strumento per gestire l’impatto della transizione ecologica sul mercato del lavoro perchè «la transizione è anche transizione di competenze». «Stiamo ragionando con altri sulla possibilità di trasformare il fondo ‘Surè in uno strumento che sostenga le transizioni: una sorta di mega cassa integrazione europea per il reskilling e l’upskilling». Ma uno dei nodi di fondo è che il mercato del lavoro italiano «è pessimo» e porta spessissimo a forme di occupazione «povera» avverte la sottosegretaria al Mef, Maria Cecilia Guerra. «Dobbiamo puntare sulla qualità del lavoro», eliminare le cosiddette «forme atipiche» e sottopagate che non consentono di guadagnare «abbastanza per garantire una vita dignitosa». Lo sfruttamento con tipologie di lavoro precarie e flessibili «va eliminata – rincara il segretario generala della Uil, PierPaolo Bombardieri – La politica deve avere il coraggio di fare delle scelte. In Italia negli ultimi tre anni, quindi ben prima della pandemia, su 24 milioni di contratti accesi, abbiamo avuto 4 milioni di contratti a tempo indeterminato e 20 milioni di contratti precari, part time, partite Iva, false cooperative. È lì che bisogna intervenire».