Raffaele La Capria raccontava che in lui l’idea della scrittura era nata un giorno da ragazzino, mentre tornava a casa da scuola attraversando la Villa comunale di Napoli. A un tratto un canarino si staccò ad un albero per posarsi sulla sua spalla. Fu un attimo di profonda emozione, poi l’uccello volò via. A casa, spiegò alla madre che cosa gli fosse successo, ma si accorse subito di aver pronunciato una sola frase. «Dov’era l’emozione che avevo provato e che era la sola cosa importante da dire?». Si rese conto allora che il problema era quello di riuscire a trasmetterla con le parole. «Ci pensai e ancora ci penso, ma una cosa l’ho capita. Ed è questa: per trasmettere un’emozione non bisogna essere emozionati, bisogna invece con la freddezza di uno stratega e un calcolo ben ragionato, scegliere bene le parole, ordinarle in un contesto che produca una chiara immagine del momento in cui il fatto che ha prodotto l’emozione è accaduto, e dirigerle, come un generale dirige le sue truppe, alla conquista del castello dell’emozione». Ecco, ora che Raffaele La Capria se ne è andato – alla vigilia dei cent’anni che avrebbe compiuto il prossimo tre ottobre e nei pressi del secondo anniversario della morte della sua amatissima Ilaria Occhini -, per tentare di introdursi nel suo laboratorio letterario occorre riandare a queste sue affermazioni e comprendere come il suo percorso narrativo, il suo sforzo di riflessione, il suo impegno cognitivo, tutto ciò e altro ancora siano stati segnati da un sorta di smarcamento progressivo dall’energia attrattiva e accecante del dato emotivo per poter delineare uno stile della purezza semplice e del profilo essenziale in grado comunque di cogliere l’essenza, la sostanza, il tesoro del castello a cui muovere assalto.
La Capria vi è riuscito con straordinaria efficacia e affermare oggi, davanti alla sua scomparsa, che egli sia stato tra i maggiori scrittori di questo tempo e che con lui si chiuda una stagione della letteratura italiana non è esagerazione cerimoniosa. Perché fin dall’esordio con “Un giorno d’impazienza” del 1952, poi con “Ferito a morte” che nel 1961 gli fece vincere il Premio Strega, quindi con le raccolte di racconti, i frammenti di una biografia letteraria in “False partenze” nel 1974, il fondamentale “L’armonia perduta” nel 1984 e “La neve sul Vesuvio” nel 1988, “Letteratura e salti mortali” nel 1990, “Capri e non più Capri” nel 1991, “L’occhio di Napoli” nel 1994, “La mosca nella bottiglia” nel 1996, “Lo stile dell’anatra” nel 2001, “L’estro quotidiano” nel 2005 – vincitore del premio Viareggio – , fino al “Fallimento della consapevolezza” nel 2018, insomma l’intero corpo della sua opera che nei Meridiani curati da Silvio Perrella giunge a composizione, c’è una precisa coerenza, quasi un’ossessione a cui rispondere, una necessità da placare: tratteggiare nelle modalità della scrittura letteraria il senso della vita. Se questo è, l’immagine di riferimento per Raffaele La Capria è stata quella di Napoli. Il luogo delle origini, la città delle false partenze e del poetico litigio, la base della diaspora che coinvolse lui e tanti altri, il teatro della giovinezza vivace e inquieta degli anni della rivista “Sud”, lo scenario delle amicizie e delle relazioni con Francesco Rosi, Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi, Pasquale Prunas, Luigi Compagnone, Maurizio Barendson, Tommaso Giglio, il punto nel mondo da cui guarda oltre e cogliere in autori come Jean-Paul Sartre, T.S. Eliot, Jean Cocteau, Wystan Hugh Auden un orizzonte più ampio in cui collocarsi. Era la Napoli da schiodare dalla cartolina del colore locale per intenderla nelle dimensioni dell’immagine mentale. In una pagina di “Napoli è Napoli”, il testo realizzato con Perrella che scandisce la sequenza di fotografie di Lorenzo Capellini, edito da Minerva in occasione del centesimo compleanno e che resta l’ultima sua opera, lui precisa: «Sotto le amene apparenze Napoli è stata sempre, per me, Natura primordiale e indomabile in contrasto con una plurisecolare Storia irredimibile; e questo contrasto è assurto in me a valore di simbolo, è una chiave interpretativa per capire meglio la città, e il mio rapporto con essa».
Rapporto non semplice. Dall’inseguendo all’ombra grigia profilata d’azzurro della spigola che avanza all’inizio del bellissimo “Ferito a morte”, “La Grande Occasione” che si rivela La Grande Occasione Mancata, Napoli sarà la città che ferisce a morte o addormenta: la città cullata nel mito della Bella Giornata e che ne “L’armonia perduta” – decisivo saggio narrativo che approfondisce quasi in misura antropologica l’identità napoletana – vede scorrere la sua epica decadenza. La città su cui la classe digerente, così definita da Francesco Compagna, pone le sue mani affaristiche e devastatrici, nella denuncia che sceneggiando il film di Rosi del 1963 Raffaele La Capria lancia con intensa consapevolezza civile. Napoli gli provocava rabbia e amore, nel constatarne le offese. A mezzo secolo da “Ferito a morte” lui però confessò che non era il libro che avrebbe voluto scrivere, perché mancava il lato oscuro della vita. Le contraddizioni, le umiliazioni, il dolore della città scavavano nell’animo di Massimo De Luca, il protagonista del romanzo, portatore – diceva – della “dissenting opinion, che rompe un patto tacito e si ribella”. L’interprete dello spreco di una gioventù che nella parabola dei suoi tuffi disegnata da Aden e Joyce segnava un gesto sovversivo. «Napoli stimola domande, produce l’esperienza di una nevrosi»: come la realtà, come il mondo, come la vita. Nello stile leggero ed elegante di Raffaele la Capria ci sono risposte con cui continuare il cammino.