Nel trigesimo del mio arresto ripubblico il mio articolo sui 15 giorni di prigionia da innocente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. In calce al pezzo c’è il link della mia video intervista al portale web-tv Atella News, diretto da Idio Urciuoli. Se trovate un po’ di tempo buona lettura e buona visione. Inclusi i pochi finti amici e alcuni parenti-serpenti che si sono dileguati come topi di fogna. Grazie di cuore ai tantissimi quasi tutti, che hanno sempre creduto in me. Un ringraziamento speciale ai colleghi Francesca Nardi e Luigi Russo, persone e professionisti di un altro pianeta.

di Mario De Michele

Non ho versato nemmeno una lacrima durante i peggiori 15 giorni della mia vita. Né il 30 giugno, quando sono stato arrestato senza sapere il perché. C’è voluto molto tempo per comprenderlo. E in verità non l’ho mai capito fino in fondo. Né quando sono stato spedito in galera come un pacco postale. Sono rimasto “freddo” anche al momento delle foto segnaletiche e delle impronte digitali rilevate in una camera spettrale dove tutto sembrava amplificato. “Selfie” imposti e meccanici. Sono schedato. L’inizio dell’incubo. Non ho pianto neppure quando il cancello del carcere di Santa Maria Capua Vetere si è chiuso alle mie spalle al mio ingresso con l’auto dei carabinieri. Ricordo lo sferragliamento e un tonfo metallico presagio di cose brutte, rumore da brividi che segnava un “prima e un dopo”. Osservavo le manette ai polsi. Non facevano male. Erano il simbolo della fine della libertà. La fine di tutto. Sempre fissi alla parete bianca per non guardarmi intorno gli occhi sono rimasti asciutti anche la prima notte in cella. Supino e immobile su una branda in alto. Sotto dormiva un altro detenuto. Accanto un secondo letto a castello con due posti. In totale quattro persone che condividevano le grate, il bagno, la cucina, gli armadietti, lo spazio angusto e l’aria umida e afosa di inizio luglio. Sono stato dirottato alla prima sezione, la Nilo, stanza n. 4. Quella notte non ho preso sonno. Brevi e convulsi gli intervalli di dormiveglia. Non so esprimere come mi sentissi. Ero anestetizzato. Forse è così che volevo sentirmi. Teso dalla testa ai piedi come la pelle di un tamburo. Una agitazione soffocante e costante per tutto il corpo, come se dentro di me si agitasse un’anima in pena nel vano tentativo di fuoriuscire. Le viscere come l’epicentro di un terremoto. E la testa in fiamme. Gli arti rigidissimi. Restare fermo era l’unico modo per impedire ai battiti del cuore di sfondare il torace. Mi dava sollievo e regolarizzava la respirazione. Speravo di non andare in iperventilazione, di non avere una crisi d’ansia o di panico. Neanche in quei momenti di estremo malessere psicofisico il mio volto è stato rigato da lacrime. Non era una novità per me. Il mio unico figlio Giuseppe mi ha sempre chiesto fin da piccolo: “Papà, ma tu non piangi mai?”.

L’ANESTESIA AUTOINDOTTA PER NON PENSARE
Era vero. È successo anche in carcere. Nonostante in poche ore, volate via come una manciata di secondi, avessi perso la libertà, la famiglia, l’amato cane Joker, gli affetti e il lavoro, tutto insomma, non ho versato una lacrima. Sono rimasto immobile per un’intera notte. Non riuscivo a riflettere su nulla sopraffatto dalla selva di pensieri che affollavano la mia mente come un centro commerciale preso d’assalto nei saldi stagionali. Stando lì fermo forse speravo che lo scoccare delle ore riportasse nella norma i parametri vitali. Poi ho scoperto che il tempo aiuta, certo, ma non è vero che sana tutto. Se si rompe qualcosa dentro resta sempre aperta una ferita più o meno sanguinante. A volte è più dolorosa, in altri casi più sopportabile. Ma sai che è lì, in qualche posto recondito del corpo e del cervello. E non si rimarginerà mai. Un po’ come i dolori articolari degli anziani. Quando splende il sole sembrano svaniti, ma puntualmente ritornano nelle giornate umide e fredde. Allora capisci che bisogna conviverci. Non c’è altro rimedio. Il primo giorno in carcere è stato più traumatico della prima notte. Si acuiva la tensione psicofisica accumulata nelle ore notturne. Le membra erano sul punto di strapparsi. Una sensazione orribile mi proiettava nelle radicali novità di un’esistenza costellata da regole di primo acchito incomprensibili ma necessarie a garantire la convivenza forzata di 48 persone detenute in un perimetro lungo una quarantina di metri e stretto meno di tre. Poi la routine giornaliera. Nulla a che fare con quello che facevo prima. Pulizia della stanza, preparazione del cibo, cucinato dai detenuti perché quello che passava il convento era incommestibile, altre pulizie e al calar del sole tutti seduti sugli sgabelli o stesi sulle brande con gli occhi rivolti al piccolo schermo della tv. Fingevo di guardare e di ascoltare anch’io. Un modo per integrarmi. In realtà serviva a non pensare. Più di ogni cosa al mondo speravo che non passasse l’effetto dell’anestesia autoindotta. Col passare dei giorni le cose non sono andate meglio. Nessuna delusione. Non nutrivo alcuna aspettativa positiva. In “Memorie dal sottosuolo” Dostoevskij sostiene che “l’uomo è l’essere che si abitua a tutto”. Per me non è stato così. Ho cercato di adattarmi, di calarmi in quel mondo. Ho fallito. Mi sentivo un corpo estraneo.

LA GRANDE BUGIA E I COMITATI D’AFFARI NEI COMUNI
Dal 30 giugno al 15 luglio ho trascorso 15 giorni di inferno. Non ho ancora capito, probabilmente non lo capirò per il resto della mia vita, come mai non abbia avuto un crollo nervoso. Eppure dentro e fuori di me avvertivo che stavo mollando. Ero certo che prima o poi, a momenti, in pochi attimi avrei ceduto, avrei detto basta, mi sarei lasciato andare e perso in un vortice di vuoto autodistruttivo senza ritorno in superficie. Non è un melodramma. È una tragedia personale, il peggiore girone dantesco, la storia di un’esistenza spezzata. Poi una scintilla, così, dal nulla. Ho trovato un minimo di forza per accennare una reazione. Ho intravisto un fioco spiraglio di luce. Mi sono aggrappato alla mia innocenza. È stata la mia salvezza. Non mi sono posto più le stesse e ripetitive domande: “Che ci faccio qui? Perché mi hanno rinchiuso? Cosa ho fatto di male? All’improvviso è affiorata la consapevolezza che ce l’avrei fatta perché avevo la coscienza pulita. Ho realizzato che ero vittima di una grande menzogna costruita ad arte. Ad un certo punto tutto mi è stato chiaro: ero diventato un problema per la politica affaristica e per le lobby imprenditoriali. In vista c’erano progetti milionari. Tutto doveva andare liscio per riempire altre carriole di soldi sporchi. Non c’è mai fine all’ingordigia. Le mie inchieste e i miei articoli, corredati di atti ufficiali e riscontri oggettivi, rappresentavano un intralcio. Mario De Michele andava neutralizzato e distrutto. Una volta e per tutte. Negli ultimi anni avevo sollevato troppa melma nascosta sotto il gigantesco tappeto delle amministrazioni locali a trazione delinquenziale. Niente di nuovo. Quando i Comuni si trasformano in comitati d’affari i giornalisti che raccontano dettagliatamente gli illeciti diventano i bersagli grossi da annientare con ogni mezzo.

MARIO GRIFFO, L’AVVOCATO-AMICO CHE MI HA DATO FORZA
L’altra mia vera ancora di salvataggio è stata la famiglia. Mia moglie Enrica si è dimostrata un gigante. In una situazione tragica ha tirato da dentro di sé una forza che nemmeno io sarei stato capace di trovare. Nella mia vita è sempre stata un punto fermo. Un pilastro portante. Senza di lei crollerebbe tutta la nostra casa. Non serve dire cosa rappresenta Enrica per me, sarebbe retorico. Mio figlio Giuseppe, al quale ho impedito di venire ai colloqui al carcere per non farmi vedere in quelle condizioni, mi ha dato a distanza una voglia di combattere indescrivibile. Mi ha fatto sentire più potente di Hulk. Senza di lui non potrei vivere. Senza di lui non avrei scritto questo pezzo. Mio padre 82enne seduto al tavolo dei colloqui con il viso imbambolato perché non si rendeva conto fino in fondo dell’accaduto mi ha aiutato a risalire dal vortice della rassegnazione in cui stavo pericolosamente piombando. A casa c’era mia madre anziana e invalida al 100%. Il 3 luglio le avevo prenotato un’importante visita neurologica. Per “colpa” mia non è potuta andare dal medico. Ogni secondo temevo che non l’avrei più rivista, che sarebbe morta per quel mancato consulto specialistico e per il dolore dell’unico figlio sbattuto dietro le sbarre. Poi mi sono detto che non poteva, non doveva finire così. Che non lo meritavo io e non lo meritavano i miei familiari. Ero innocente. Mi sono retto sui bastoni della famiglia di mia madre e di quella di mia moglie, persone dall’animo buono alle quali voglio un gran bene anche se non sempre lo dimostro. Così sono rimasto in piedi. Traballante. A pelo d’acqua. Boccheggiavo. Ma avevo ritrovato la forza e la voglia di restare a galla.

LA BATTAGLIA DECISIVA DAVANTI AL RIESAME
L’altra inesauribile fonte di forza è stato l’avvocato e amico fraterno Mario Griffo. È venuto a trovarmi in carcere in continuazione. “Caro Mario, resisti, ti tirerò fuori da qui, promettimi che terrai duro”, nessuna frase di circostanza, parole sgorganti dal cuore. Per tenermi “vivo” mi ha chiesto di aiutarlo nella battaglia decisiva davanti al Tribunale del Riesame di Napoli. Oggi ho compreso che la richiesta dell’avvocato Griffo era un modo per distrarmi dai cattivi pensieri e di farmi lottare. Per due settimane di fila ha lavorato in modo certosino giorno e notte soltanto al mio caso. Ha prodotto una miriade di atti, audio, articoli, documenti. Di tutto e di più. Ero seduto accanto a lui all’udienza del Riesame fissata per il 15 luglio alle ore 9.15. Ha contestato l’ordinanza di arresto con una passione unica e con puntuali riferimenti nomativi e giurisprudenziali. Mi sono emozionato. Stavo quasi per piangere. Codice e carte alla mano l’avvocato Griffo ha smontato pezzo per pezzo tutte le accuse: “Mario De Michele è stato vittima di una trappola, non merita di stare in carcere”. Poi mi ha salutato con un bacio e un abbraccio. E mi ha sussurrato all’orecchio: “Ho fatto il massimo, ci ho messo l’anima, in bocca al lupo Mario”.

QUEL PIANTO DA RACCONDARE A MIO FIGLIO
Sono stato riaccompagnato in cella verso le 12 di quell’indimenticabile 15 luglio 2025. Ero distrutto. Ma fiducioso: “Sono innocente”, mi ripetevo come una cantilena. Poco prima delle 19.30 l’agente penitenziario in servizio ha urlato il mio nome. Mi sono precipitato da lui. “De Michele, sei libero, prepara la tua roba, esci subito”. In due minuti ero al piano terra per gli ultimi incartamenti e per il ritiro degli oggetti personali trattenuti il 30 giugno. Si è aperto l’ultimo cancelletto dell’istituto penitenziario. Dopo 15 giorni di carcere ero di nuovo un uomo libero. Ho alzato gli occhi al cielo, ho assaporato una leggera brezza e ho divorato con tre lunghe boccate una Marlboro. Poi mi sono seduto su una panchina. Ho visto arrivare la Panda di mio padre. Quando dall’auto è scesa mia moglie tremante di gioia e con gli occhi ludici l’ho abbracciata. E ho pianto. Per la prima volta in vita mia. Non l’ho ancora raccontato a mio figlio. Prima o poi dovrò farlo. Quelle lacrime erano anche per lui.

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