Usare il Tfr depositato all’Inps dalle grandi imprese per rimpolpare l’assegno pensionistico e favorire l’accesso alla pensione, con calcolo puramente contributivo. Il sottosgretario Durigon, in questi giorni al meeting di Rimini, è tornato a cavalcare un’idea che aveva già delineato nelle scorse settimane a Repubblica, proponendolo come uno dei cardini previdenziali per la prossima manovra insieme alla sterilizzazione dell’aumento dei requisiti per la pensione (3 mesi) che in assenza di interventi scatterà dal 2027 per adeguarsi alla speranza di vita. “Stiamo valutando di proporre che il Tfr fermo all’Inps, delle imprese sopra i 50 dipendenti, possa essere una rendita, per dare un ristoro e avere pensioni un pò più forti”, ha ribadito Durigon. Si tratterebbe di concedere a tutti i lavoratori – che siano nel sistema retributivo, misto o contributivo – di uscire con 64 anni di età e 25 di contributi e di usare il Tfr detenuto presso l’Inps come rendita per arrivare a soddisfare il requisito di 3 volte l’assegno sociale (1.616 euro, oggi), soglia-limite sotto la quale non è possibile smettere di lavorare. In sostanza, se un lavoratore o una lavoratrice arrivasse a 1.500 euro di assegno grazie ai contributi versati, ma potesse aggiungerne 150 trasformando il Tfr in rendita, potrebbe andare in pensione a 64 anni.

La rendita del Tfr sarebbe – nei piani di Durigon – tassata in forma agevolata, come accade per la previdenza derivante dai fondi. Quanto ai costi, essendo l’’assegno maturato ricalcolato con il contributivo, per il sottosegretario “se il Tfr va nella rendita non è più un esborso che fa l’Inps” quindi non dovrebbe avere un impatto importante sui conti pubblici. L’opzione del Tfr trasformato in rendita si inserisce in un ventaglio di strumenti di uscita “straordinaria” dal lavoro, molti dei quali stanno però mostrando inequivocabili segni di stanca, anche perché le norme li hanno via via resi più stringenti proprio per evitare di pesare troppo sulla spesa previdenziale. Tra i canali speciali di uscita, è ancora aperta la quota 103 introdotta nel 2023 e in scia alle precedenti quote 100 e 102: prevede la somma di 62 anni di età e 41 di contributi. Prevede: il ricalcolo dell’assegno integralmente contributivo; “finestre” (il ritardo tra maturazione del diritto e la ricezione effettiva dell’assegno) di 7-9 mesi a seconda del settore di appartenenza (privato o pubblico); limiti all’assegno che non può superare le 4 volte il minimo Inps; il divieto del cumulo con redditi da lavoro, oltre i 5mila euro annui frutto di prestazioni occasionali.

Questa via d’uscita dal lavoro, però, è rimasta ormai decisamente residuale, come ammette lo stesso Durigon: i paletti via via introdotti – oltre a un assottigliamento della platea – hanno fatto sì che nel 2024 fossero solamente 1.153 le persone uscite dal lavoro con la quota 103. Nel 2023, le pensioni liquidate con questo sistema erano poco più di 23mila. Un calo che ha contribuito al -15% complessivo delle “pensioni anticipate” registrato dall’Inps nel 2024. Per Durigon, ormai Quota 103, visto anche lo scarso utilizzo, non rappresenta “una forma ottimale di flessibilità in uscita” e in caso di adozione della proposta sul Tfr potrebbe essere assorbita dal nuovo strumento. La pensione anticipata per i lavoratori che appartengono al sistema retributivo o misto (ha versato contributi ante 1996) prevede requisiti di 41 anni 1 mese di contributi per le donne e 41 anni e 10 mesi per gli uomini, con una finestra mobile di 3 mesi. Numeri fissati fino al termine del 2026, prima che tornino gli adeguamenti alla speranza di vita che il governo vuole congelare.

Per i contributivi puri, esiste un altro mix di requisiti: 64 anni di età, 20 anni di contributi effettivi e un assegno pari almeno a 3 volte l’assegno sociale (1.616 euro dal 2024), con alcune riduzioni per le donne con figli. La legge già prevede un inasprimento degli importi-soglia fino a 3,2 volte l’assegno sociale nel 2030, ma siccome è una tagliola pesantissima viste le carriere discontinue e i buchi contributivi, nella manovra per il 2025 il governo ha previsto la possibilità di conteggiare anche la rendita della previdenza complementare per raggiungere gli importi soglia. Si tratta di un meccanismo simile a quello che Durigon propone per il Tfr, ma nel caso della previdenza complementare “l’aiuto esterno” (ovvero il conteggio della rendita dei fondi complementari per raggiungere gli importi-soglia dell’assegno di pensione) arriva a patto di un inasprimento degli altri paletti: per cumulare le rendite, infatti, i contributi effettivi richiesti per accedere all’anticipata salgono da 20 a 25 anni e poi ancora a 30 a partire dal 2030.

Partita come sperimentazione, è stata più volte prorogata ma anche in questo caso a maglie via via più strette. E, infatti, se si prende il Monitoraggio sui flussi di pensionamento dell’Inps del mese scorso, si legge che le pensioni in Opzione donna liquidate nel gennaio-giugno 2025 erano appena 1.134 (3.590 nell’intero 2024), con la stragrande maggioranza concentrata nella fascia sotto i 1.500 euro (468 non arrivano neppure a mille euro). L’assegno è ricalcolato con metodo contributivo. I requisiti sono: 35 anni di contributi e 61 anni di età alla fine del 2024 (con riduzioni dell’età anagrafica fino a 59 anni in presenza di almeno due figli o in caso di licenziamento/crisi aziendale). Ma soprattutto il rientrare in una di queste condizioni: essere caregiver (assistere i familiari ex 104); invalidità superiore al 74%; essere lavoratrici licenziate o di aziende in crisi. Su questo strumento, a differenza di quota 103, Durigon dice che “andrebbe rafforzata perché oggi risulta una misura poco efficiente e ha avuto scarso appeal”.

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