“Rammarico” per una fine troppo “brusca” della legislatura e per la mancata riforma della legge elettorale. “Preoccupazione” per il ritorno di facili “promesse” preelettorali, di questo o quel partito alla caccia di “un fascio di voti”.
E una punta di amarezza per l’ormai quasi certa discesa in campo di Mario Monti. Questi sono i sentimenti sui quali si è mosso l’atteso discorso di Giorgio Napolitano nel tradizionale saluto di fine anno alle alte cariche dello Stato. Una discesa in campo che può prendere forme diverse per il Professore ma che per Giorgio Napolitano, insieme al mini-trauma delle dimissioni anticipate, riporta il percorso elettorale nell’alveo della normalità. La parola torna alla politica, ha confermato oggi il presidente, dando l’impressione di considerare Monti già un ‘competitor’ come gli altri. In una a tratti malinconica cerimonia nel salone delle Feste del Quirinale, il capo dello Stato ha fatto capire che è veramente finita la stagione dei tecnici: con le elezioni che si avvicinano è chiaro come “si stia per tornare ad una naturale riassunzione da parte delle forze politiche del proprio ruolo”. Quindi sarà il presidente – ancora perfettamente in carica essendo tramontata la possibilità di un ingorgo istituzionale e quindi di sue dimissioni anticipate – a dare, “suo malgrado”, l’incarico al futuro premier. E deciderà solo “sulla base del consenso che gli elettori accorderanno” ai partiti che correranno alle elezioni di febbraio. Solo su quella base, ha tenuto a precisare, “poggeranno le valutazioni del capo dello Stato”. Piuttosto silenzioso nei grandi saloni del Quirinale, il presidente del Consiglio ha poi lasciato il ricevimento insieme a Napolitano, senza sciogliere neanche oggi il rebus su quali saranno i suoi nuovi panni di politico nella corsa per riprendere palazzo Chigi, questa volta con il voto degli italiani. Presenti ministri, candidati premier – c’erano Bersani ed Alfano (in ritardo) ma non Berlusconi – banchieri ed il gotha del giornalismo, Giorgio Napolitano ha preso la parola in diretta Tv ed ha parlato per 30 minuti. Ed è stato subito chiaro che, pur nei limiti del suo ruolo, avrebbe fatto capire il suo pensiero senza nascondere le emozioni. Anche se si va verso lo scioglimento delle Camere “con una lieve anticipazione rispetto alla scadenza naturale”, “brusca è stata di certo l’accelerazione impressa” dall’annuncio delle dimissioni del premier Monti, ha esordito il presidente confermando la sua contrarietà a questa accelerazione. “Sono sempre stato convinto del grande, decisivo valore della continuità e della stabilità istituzionale”, ha spiegato. “Attenzione!”, ha poi aggiunto. “In gioco è il Paese. Non si bruci il recupero di fiducia nell’Italia che si è manifestato negli ultimi tempi”. Sì perché il Governo Monti ha raggiunto risultati importanti anche se il presidente non riesce o non vuole trattenere la propria profonda delusione per aver buttato via un’altra legislatura senza aver fatto le riforme. In primis quella che avrebbe dovuto cancellare il Porcellum dalla storia repubblicana. Ma non solo: riconosce di aver avuto “troppe aspettative” sulla capacità di autoriformarsi dei partiti. Invece hanno vinto “resistenze profondamente radicate, lenti e stentati processi di maturazione”. Un duro ‘j’accusé ai partiti che il presidente lancia preoccupato segnalando – proprio alla vigilia di importanti elezioni – che questi ritardi “alimentano il corso limaccioso dell’antipolitica e il qualunquismo istituzionale”. Mastica amaro il presidente che non avrebbe mai voluto pronunciare queste parole alla fine del suo settennato: “é rimasta in larga misura da percorrere, e non solo sotto il profilo della moralità, la strada di una riqualificazione dei partiti”. Quindi passa al futuro e ribadisce che “la recessione si prolunga e pesa”. Che nessuno ormai si potrà distaccare dall’Europa e dalla strada dell’Euro per le quali “il cammino é segnato”. E, soprattutto, che chiunque vincerà le elezioni “potrà prescindere dal proseguimento di politiche dio correzione dei conti pubblici, dolorose ma inevitabili”. Ma è il percorso politico quello che chiude il ragionamento del capo dello Stato. “Se la legislatura si fosse conclusa alla scadenza dei cinque anni”, le nuove Camere avrebbero eletto un nuovo presidente che avrebbe dato l’incarico al premier. Ma così non è stato: “mi trovo a dover chiarire che su di me ricadrà un compito nettamente diverso da quello che mi toccò assolvere nel novembre del 2011”, cioé quando diede l’incarico a Monti dopo le dimissioni di Berlusconi. Oggi è diverso. Sarà Napolitano a gestire elezioni importanti dalle quali deve “tornare una normale riassunzione di responsabilità da parte delle forze politiche del proprio ruolo, sulla base del consenso che gli elettori accorderanno a ciascuna di esse”. Questa e solo questa, conclude Giorgio Napolitano, “sarà la base su cui poggeranno anche le valutazioni del capo dello Stato”. C’é tempo solo per un’ultima precisazione: “la non rielezione” del capo dello Stato è “l’alternativa che meglio si conforma al modello costituzionale di presidente della repubblica”. Tradotto: un mandato al Colle basta ed avanza.