Gli incassi del “pizzo” che finiscono nelle “casse comuni” della criminalita’ organizzata hanno superato abbondantemente i 9 miliardi di euro, di cui oltre 5 a carico dei 160mila commercianti “taglieggiati”. Tanto che sempre piu’ imprese preferiscono chiudere o cambiare citta’.

La denuncia arriva dal XIII rapporto di Sos Impresa, secondo cui il racket delle estorsioni – che storicamente e’ destinato a mantenere i detenuti e i loro familiari – “e’ cresciuto nella dimensione della quotidianita’” e “si e’ imposto come fatto comune, entrando nella cultura della gente e quindi nelle botteghe, nelle aziende, nei cantieri, negli studi professionali, tracimando a tal punto che si e’ propagato all’intera vita sociale toccando banche, condomini, case popolari, persino scuole e chiese”. Il fenomeno resta diffuso soprattutto al sud: in Sicilia ne sono colpiti il 70% dei commercianti, soprattutto a Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Catania e Messina dove si arriva anche a percentuali dell’80-90%, e a non pagare sembrano essere solo “le imprese gia’ di proprieta’ dei mafiosi o con cui si sono stabiliti rapporti collusivi e affaristici”.Pagano il pizzo il 50% delle imprese calabresi, con punte maggiori a Reggio Calabria e nel Vibonese lametino; il 40% di quelle campane, con punte maggiori nella provincia casertana, a Napoli e a Salerno; in Puglia pagano in media il 30% delle imprese, in misura maggiore nel nord barese, nel foggiano e nel tarantino, in misura minore a Lecce e Brindisi. A preoccupare, secondo Sos Impresa, e’ anche il fatto che a subire estorsioni e’ il 10% delle imprese di Basilicata, Lazio, Abruzzo e il 5% di quelle lombarde, piemontesi ed emiliano romagnole. Mentre si conferma la contrazione delle denunce che – dopo la crescita del biennio 2007-2008 – sono tornate ai livelli di cinque anni fa con un decremento del 15%.

 

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