NAPOLI – Arriva senza farsi sentire e spesso lo si scopre casualmente. Tra i fattori di rischio l’età, la maggior parte dei casi viene identificata dopo l’ingresso in menopausa, la menopausa tardiva e il non aver avuto figli ma anche la predisposizione familiare. Il carcinoma ovarico è un tumore che colpisce le ovaie. In Italia ogni anno si registrano 5.000 casi, ossia 1 donna su 97.
È al nono posto tra le forme tumorali e costituisce il 2,9% di tutte le diagnosi di tumore. Si tratta di uno dei tumori femminili più pericolosi: circa il 70% delle diagnosi avviene in fase avanzata, perché rimane asintomatico per un lungo periodo. Eppure le italiane lo conoscono poco e fanno ancora meno per prevenirlo: 7 su 10 non ne conoscono i segnali e solo l’11% sa che l’ecografia transvaginale è fondamentale per la diagnosi. I sintomi di esordio della malattia sono spesso di lieve intensità, tali da essere confusi con le più banali e frequenti alterazioni dell’apparato gastrointestinale: sensazione di gonfiore addominale, difficoltà digestive, nausea, aumento della circonferenza addominale. “Questa è una delle malattie più difficili da controllare poiché non sono stati identificati strumenti efficaci di screening e di diagnosi precoce” spiega il dottor Sandro Pignata, direttore della Struttura Complessa di Oncologia Medica, Dipartimento Uroginecologico dell’Istituto Nazionale Tumori – IRCCS “Fondazione Pascale” di Napoli. “Per quanto concerne lo screening, a differenza di quanto accade con il pap-test nei confronti del tumore del collo dell’utero, oggi non è disponibile un valido metodo di screening per una diagnosi precoce di carcinoma ovarico. Per questo motivo, le pazienti spesso arrivano in reparto quando la neoplasia è già in stato avanzato. Una visita ginecologica accurata ed effettuata con regolarità rimane il metodo migliore per lo screening del carcinoma ovarico”.
L’Istituto Nazionale Tumori di Napoli è uno dei centri all’avanguardia e tra i più qualificati a livello nazionale per il trattamento del tumore dell’ovaio. Il dipartimento ha sviluppato un percorso di cura specializzato per questa patologia, poiché la collaborazione stretta tra la struttura di Oncologia Medica e quella di Ginecologia permette una gestione della malattia completa e tempestiva.
A causa della mancanza di avvisaglie chiare, solo in 1 caso su 4 questa neoplasia viene diagnosticata in una fase precoce, quando con un intervento chirurgico le possibilità di guarigione sono intorno al 80-90%. “Il primo passo è l’intervento chirurgico per la riduzione della massa tumorale, un aspetto fondamentale dal quale dipende l’intero percorso di cura” chiarisce il dott. Pignata. “L’intervento chirurgico viene eseguito dagli specialisti dell’Unità di Oncologia ginecologica, mentre la chemioterapia viene gestita dalla mia équipe”.
In circa il 70% delle pazienti però il tumore si ripresenta dopo un certo periodo: capire il meccanismo che genera le recidive e individuare le pazienti a rischio di ricaduta è uno degli obiettivi dei ricercatori. “Le strutture funzionali del Dipartimento Uroginecologico collaborano con i ricercatori del nostro istituto per condurre protocolli di ricerca di tipo traslazionale. Questo tipo di collaborazione, oltre a sviluppare ricerca, offre vantaggi ai pazienti poiché permette di garantire un elevato standard di cura con l’uso di farmaci innovativi. Il nostro dipartimento coordina il Gruppo Mito, (Multicenter Italian Traials in Ovarian cancer), impegnato a sviluppare una collaborazione di ricerca in ambito di ginecologia oncologica. Secondo Pignata si può spostare in avanti la frontiera della qualità della vita attraverso terapie sempre più personalizzate, tecniche chirurgiche poco invasive e farmaci meno tossici. “Oggi in oncologia si parla molto di farmaci biologici, che rappresentano la nuova frontiera contro i tumori. Per la neoplasia dell’ovaio sono arrivati più tardi” conclude Pignata, “ma molti sono in via di sviluppo. Nel nostro centro diversi sono in fase di sperimentazione”.