No agli automatismi nell’applicazione della custodia cautelare in carcere: anche rispetto ai delitti commessi con metodo mafioso o al fine di agevolare le attività delle associazioni mafiose previste dall’art. 416-bis del codice penale, la custodia cautelare in carcere va evitata quando, valutando il caso concreto e acquisendo specifici elementi, emerge che il reato non è equiparabile alla partecipazione al sodalizio e all’organizzazione mafiosa.
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza n.57/2013 depositata oggi, redatta dal giudice Giorgio Lattanzi. Pronunciandosi a seguito dei giudizi promossi dal Tribunale di Lecce con ordinanze del 16 maggio e del 7 giugno 2012 e dalla Cassazione con due ordinanze del 10 settembre 2012, la Consulta ha infatti stabilito l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale che prevede la custodia cautelare in carcere quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per i delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose, ma non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, da cui risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. La Corte ha ritenuto la norma in contrasto con gli art. 3, 13 e 27 della Costituzione (principio di uguaglianza; libertà della persona; diritti dell’imputato). Il Tribunale di Lecce si è rivolto alla Consulta dopo essere stato investito della questione sia da parte del pubblico ministero sia da parte della difesa: alla base, il caso di un soggetto a cui era stata applicata la custodia in carcere per il reato di estorsione con l’aggravante dell’art. 7 del decreto legge 152/1991 (provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata). Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato.