Viene dalle file dell’opposizione centrista, ma non nasconde toni da ‘falco’ sull’ipotesi di un attacco israeliano contro le installazioni nucleari dell’Iran. E’ Avi Dichter, deputato ed ex capo del potente Shin Bet (i servizi di sicurezza interna dello Stato ebraico), cooptato oggi nel governo a trazione nazionalista di Benyamin Netanyahu per ricoprire la poltrona di ministro del Fronte Interno: ruolo strategico e spinoso nella prospettiva – tutt’altro che irrealistica di qui all’autunno, secondo l’ultimo tam tam della stampa locale – d’un conflitto con Teheran.
La sua designazione non giunge del tutto inattesa, ma lo costringera’ comunque a dimettersi dal suo gruppo parlamentare, quello di Kadima: il partito di centro tornato polemicamente sui banchi della minoranza nelle settimane scorse, dopo un’effimera coabitazione con la compagine di Netanyahu, il cui leader – l’ex capo di stato maggiore Shaul Mofaz – non ha esitato giorni fa a definire ”avventuristica” l’opzione di un’azione militare solitaria d’Israele contro l’Iran. Dichter, che ha esperienze di polizia e d’intelligence piu’ che militari, svolgera’ il suo ruolo alle dirette dipendenze del ministro della Difesa, Ehud Barak: unico esponente di primo piano del governo israeliano attuale estraneo ai partiti storici della destra, ma anch’egli schierato su posizioni di tono interventista – al fianco di Netanyahu – sul dossier iraniano. L’ex capo dello Shin Bet rimpiazzera’ Matan Vilnai, un generale della riserva – fedelissimo di Barak – appena nominato ambasciatore in Cina. E gestira’ il coordinamento della difesa interna: vale a dire il potenziale punto debole d’Israele – nell’opinione di non pochi analisti e veterani delle forze di sicurezza – laddove l’eventuale ‘strike’ contro l’Iran dovesse innescare uno scenario bellico prolungato a vasto raggio. Intervistato nel febbraio scorso proprio sull’idea di un conflitto con la Repubblica Islamica, Dichter aveva in realta’ mostrato un certa cautela, sottolineando che ”Israele non e’ una superpotenza” e non e’ tenuto dunque a ”guidare un’offensiva mondiale” nei confronti di Teheran. Piu’ di recente si e’ tuttavia segnalato, all’interno di Kadima, fra i piu’ aperti all’opzione militare: indicandola come extrema ratio, ma dicendosi persuaso della necessita’ che il suo Paese, in questa fase, debba ”dotarsi di capacita’ d’attacco”. Parole che lo allontanano dall’atteggiamento scettico – se non apertamente contrario all’idea di un’azione non concordata con gli Usa – manifestato da diversi comandanti o ex comandanti di forze armate e servizi segreti (a cominciare dall’ex numero uno del Mossad Meir Dagan). E fanno invece presagire una sintonia di fondo con Barak, mostratosi negli ultimi giorni quasi impaziente sull’argomento Iran, o con lo stesso Netanyahu: che giusto domenica scorsa ha riconosciuto i rischi a cui il fronte interno israeliano potrebbe ritrovarsi esposto in caso di una resa dei conti con Teheran; ma ha sostenuto che tale pericolo appare ”minuscolo” se paragonato a quello che egli si attenderebbe nel giorno in cui il potere degli ayatollah – radicalmente ostile all’odiato ‘nemico sionista’ – dovesse disporre davvero nel suo arsenale di testate atomiche operative. Qualcuno che ai tamburi di guerra israeliani continua a non credere in ogni modo c’e’: e’ il governo iraniano medesimo, a sentire il portavoce del ministero degli Esteri, Ramin Mehmanparast. Il quale proprio oggi, da Teheran, si e’ detto convinto che i segnali provenienti da Gerusalemme siano nulla piu’ di un bluff. ”Non prendiamo sul serio le loro minacce, avendo visto regolarmente dichiarazioni del genere rivelarsi prive di di fondamento”, ha tagliato corto il portavoce. Non senza aggiungere baldanzoso che ”se anche qualche responsabile di quel regime illegittimo volesse agire in modo cosi’ stupido, gli israeliani stessi glielo impedirebbero”.