SALERNO – Sindaco. Segretario generale della Provincia di Salerno. Animo lindo. Mani sporche d’inchiostro. Vent’anni di viaggio nei dintorni del cuore, fra ettari di emozioni e spicchi di tormenti, raccolti nel volume di poesie “Per altri versi”, edito da Guida, con la prefazione di Francesco D’Espiscopo, fra i maggiori studiosi di Alfonso Gatto.

 

Giovanni Moscatiello presenterà l’opera giovedì 27 giugno, alle 17.30, presso la Pinacoteca provinciale di Salerno. Con lui, ci saranno Francesco D’Espiscopo, Massimo Bignardi, docente di Storia dell’Arte, e Gabriele Bojano del Corriere del Mezzogiorno.

 

Prefazione di Francesco D’Episcopo

È questo un libro importante per Giovanni Moscatiello, si potrebbe dire il libro della vita, non tanto e non solo perché è un volume antologico, che raccoglie poesie vecchie e nuove, ma perché è un libro del presente e del futuro, che documenta il ritorno alla vita, all’amore della vita, direbbe Alfonso Gatto, ma anche alla irrinunciabile passione per la scrittura; una scrittura apparentemente sorniona, sospesa tra il dire e il non dire, alla ricerca della parola, del ritmo e del tono giusto; in realtà, una scrittura amorosa, avida, ardente nell’afferrare e tenere ciò che più conta e lascia un segno.

Una delle cose più terribili che può capitare ─ e i nostri poeti del Novecento ne hanno dato tormentata testimonianza ─ è morire da vivi, ma, quando si riesce a risorgere da questo rischio, la vita spalanca di nuovo tutte le sue inedite risorse e chi, più di una poeta, può coglierle in tutta la loro avvolgente bellezza?

Il poeta scrive la vita, al caldo di una condizione interiore, fatta di silenzio e solitudine, ingredienti essenziali di una parola, che riesce finalmente a dire tutto ciò che nella vita non si dice, spremendo il succo di un’esistenza, denudata dal fardello di lustrini e orpelli, che nulla hanno a che fare con la sua vera essenza.

Questa silloge, volutamente ampia e articolata, è il diario di bordo di un uomo, che, pur avendo molto navigato, ha scoperto che il vero tesoro è nell’isola del proprio cuore, che c’è ─ e come se c’è ─ basta avere la fortuna di scoprirla o di ritrovarla tra un arcipelago di falsi miraggi.

Il nostro poeta è nato vicono al mare e la metafora di questo elemento, che conosce tempeste e bonacce, egli se la porta dentro come sussulto e rigurgito di onde che attraversano la sua vita e portano, alla fine, un solo nome: amore. Un amore, cercato, perduto, ritrovato davvero come un tesoro in fondo al mare, da custodire, da preservare teneramente da ogni altra tempesta, da ogni altro naufragio, da ogni altro arrembaggio, lungo le coste della vita, animate dal vento dell’infinito.

L’amico Luigi Compagnone, in una breve, personalissima prefazione a Gli anni delle cicale, silloge del 1985, colse la “fragilità” di questa poesia <<di tersa trasparenza, fragile come l’innocenza di un bicchiere di cristallo che, tramite la luce, ci rimanda echi di colori e suoni intravisti e intrauditi>>. Il poeta si sovrapponeva al poeta, provando a cogliere l’anima di <<una parola / sola>>. Eppure, proprio in questa fragilità è la forza di una poesia, che riesce finalmente, con coraggio e fiducia, a “esporre” tutta la vita, nella verità coinvolgente ma anche nella falsità dei suoi giochi perversi, dai quali, oltre i politici, non sono esclusi neppure i poeti. L’amore, del resto, quando è vero, prevede nel suo orizzonte anche la rabbia, la rivolta, l’indignazione per una rivoluzione che non si è mai compiuta e che ora ─ ecco l’importanza di questa silloge ─ si sente di dover affidare proprio alla poesia, racchiusa in una bottiglia e lanciata nel grande mare della vita, nella speranza che su qualche sperduta spiaggia del mondo la possa raccogliere la persona giusta, chi ancora intende capire e, soprattutto, amare chi ci è lontanamente vicino. Il resto non conta, è tempo sprecato, sperduto nel labirinto di ricordi, da rimuovere e allontanare per sempre dal proprio cuore.

Ma ora veniamo all’aspetto, tecnicamente, più rilevante di questa summa di vita, al  modo di poetare e raccontare, che, pur risentendo consapevolmente di molta poesia di ogni tempo, sembra raccordarsi soprattutto al mondo dei nostri migliori cantautori, tra l’altro molto ascoltati e attraversati anche da chi scrive. Il loro modo di porsi nei confronti della parola traduce un’esigenza di esattezza e di immediatezza e, allo stesso tempo, una sorta di fascinazione enumerativa, che diventa subito emotiva. Nel serio gioco di parole, che si intrecciano, si rincorrono, spesso si trovano, il poeta cerca il bandolo della matassa, il significato riposto che si cela dietro l’apparente ragione delle persone e delle cose. E, cantando, suonando, la parola riconquista una sua dimensione espressiva, carica di rimandi, di risvolti imprevisti, facendosi racconto, talvolta persino filastrocca con cadenzate rispondenze, sino al gran finale, che racchiude e sfuma il senso delle cose, quello che sfuggirebbe a una qualsiasi, fredda analisi razionale. Ma è questo il miracolo di una poesia, che, per la sua caratteristica biologica, naturale, si presta quanto mai ad essere musicata, cantata; raccolta, recepita da chi, come il nostro autore, ha la musica dentro. Certo, qualche passaggio è più duro, ma ogni sporgenza subito rientra in un accordo, che aiuta a ritrovare il ritmo, la giusta armonia.

Sarebbe bello che, soprattutto tra i giovani, sospettosi di ogni tradizione, questo libro fosse accolto come un grande canzoniere d’amore, ma anche come la testimonianza, vera, di chi ha vissuto la giovinezza, come loro, con lo slancio di una rivoluzione sempre sognata e mai portata a termine.

Alla fine cosa resta? Qualcosa, qualcuno… perché, parole dette e non dette, che la poesia riesce finalmente a dire; la sostanza di un sogno, che si misura con le stagioni dell’amore, divenuto finalmente vero; gli anni di una vita, che diventano migliori quando si fanno, come il vino, mosto maturo; l’innocenza di un’infanzia, che si ritrova nel ricordo del padre, nella dedica alla madre, ma soprattutto nella calma di bambini che dormono sonni tranquilli.

In questo libro c’è  molto di buono: il rifiuto di tutto ciò che appare e non è; il senso di una cultura, che torni a respirare la vita, come nei nostri migliori incontri, ma anche scontri con chi la concepisce diversamente; la voglia di una essenzialità, che solo la poesia sa modulare con le parole giuste, non gridando la vita ma sussurrandola come un intimo respiro.

Il tutto nel ritmo naturale delle cose, del mare che va e viene, tra alte e basse maree, tra spiagge e scogli, anfratti di assoluto e di relativo. Oltre le Colonne d’Ercole, c’è l’Oceano, dove ogni Ulisse mediterraneo rischia di naufragare. Ecco perché conviene sempre, come in questa scorrevole sequenza di parole e cose, cercare qualcuno, qualcosa che ci faccia desistere dall’andare troppo lontano, quando la felicità è così vicina e a portata di mano.

 

 

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