di Angelo Golia Chi si candida a rappresentare il popolo in parlamento per tutelarne gli interessi  dovrebbe essere una persona d’alto profilo, di alta moralità e, di conseguenza, vivere la propria esistenza lontano dalle aule di giustizia. Ma la classe politica italiana ha dimostrato di esser lontana da rigidi principi di onestà che hanno indotto l’attuale governo tecnico ad approvare prima un Ddl anticorruzione e poi a preparare una legge sulla incandidabilità dei condannati che il parlamento dovrebbe approvare a breve.

Proprio quest’ultimo progetto è oggi uno dei temi di maggiore attualità nel dibattito politico del paese con un coro unanime che chiede al ministro Cancellieri di inserire un comma che per reati gravi ponga il divieto di candidatura anche dopo il primo grado di giudizio. Una richiesta arrivata da Bersani, da Fini e da altri autorevoli esponenti che spinti dal vento del giustizialismo, pur di raggranellare qualche voto in più, provano a cancellare secoli di diritto che, fin dai tempi della Rivoluzione Francese, fissa un principio fondamentale nella presunzione di innocenza o di non colpevolezza fino al giorno in cui la sentenza diventa definitiva. Per l’Italia, quindi, finché non superi il terzo grado di giudizio emesso dalla Corte di Cassazione.

Appare, quindi, totalmente fuori luogo che la classe dirigente e chi ambisce a diventare premier nel 2013 chieda al governo di violare l’articolo 27 comma 2 della Costituzione che recita «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Un principio che, pur affondando le sue radici nell’opera di Cesare Beccaria, si ritrova, ampiamente, nella legislazione comunitaria, sancito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Volendo porre in essere, quindi, un ragionamento puramente giurisprudenziale è lampante che la legge sull’incandidabilità, così come la chiedono i partiti, cadrebbe sotto la scure dei ricorsi alla Corte Costituzionale o alla Corte di Strasburgo. La politica, di conseguenza, deve necessariamente battere altre strade per riconquistare la fiducia dei cittadini che, come testimoniato dall’altissima percentuale di astensioni in Sicilia, ha perso totalmente quel fervore democratico che aveva portato l’Italia ad essere una delle punte più avanzate della democrazia rappresentativa occidentale.

In assenza di una riforma elettorale che crei nuovamente un rapporto tra eletto ed elettore, dando a questo la reale possibilità di scelta del proprio rappresentante non sarà certo una leggina a contribuire alla creazione di un parlamento pulito. Manca una visione sistemica per ridare prestigio alle istituzioni e ai partiti. L’impressione è che la politica, rifugiatasi sotto le spalle larghe di un governo tecnico per uscire da un catastrofico ventennio durante il quale gli interessi di un singolo sono stati anteposti a quelli dell’intera collettività, sia pronta a piegarsi ad un giustizialismo senz’appello.

C’è bisogno di scelte coraggiose avendo la forza di andare contro l’opinione pubblica dominante. In assenza di quelle basterebbe assicurare alla giustizia italiana i mezzi e le risorse per arrivare in tempi rapidi a sentenza definitiva. Un’altra utopia a fronte della certezza che noi italiani oltre ad essere un popolo di santi, poeti e allenatori stiamo anche studiando per diventare un popolo di giudici.

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