di Vincenzo Viglione Leggendo la notizia del rinvio a giudizio di Formigoni, così come accade ormai puntualmente quando un politico si ritrova coinvolto in procedimenti giudiziari, viene naturale la riflessione sul ruolo che la magistratura occupa oggi in questo Paese.
Grazie al condannato più famoso d’Italia in questi anni abbiamo ascoltato a più riprese la cantilena dei giudici comunisti, delle toghe rosse. Ultimamente si è parlato poi di “fumus persecutionis” (perché il latino, diciamo la verità, fa figo). Insomma, si è cercato in tutti i modi di diffondere l’idea che la magistratura in fin dei conti non è per niente un organo indipendente ma politicizzato e funzionale a beghe politiche dalle quali dovrebbe ben guardarsi invece di tentare esperimenti poco felici come quello che un anno fa ha precipitato figure come quella di Antonio Ingroia nel dimenticatoio nazionalpopolare di marca italica.
Ora, premesso che la mia curiosità verso il mondo della magistratura è figlia di eventi tragici come l’assassinio di Falcone e Borsellino che hanno segnato per sempre i miei ricordi di adolescente da allora alle prese con domande su cosa diavolo avessero combinato dei giudici per meritare di essere fatti a pezzi in quel modo, e soprattutto da chi.
Poi sono arrivati i libri, la formazione, i viaggi a Palermo e una lunga serie d’incontri con giudici in carne e ossa che mi hanno permesso di mettere insieme un po’ di tasselli nell’ambito della difficile comprensione di questo mondo tanto contrastato come quello della “Giustizia”. Una Giustizia che nel mio modo di intendere la società è quella fatta di uomini che studiano, che lavorano, che si appassionano. Quella Giustizia fatta di uomini che spesso questo studio, questo lavoro e questa passione sono costretti a pagarli, loro malgrado, con una libertà monca, fatta di tre o quattro poliziotti che ti seguono ovunque, fatta di rapporti familiari che rischiano sovente di diventare freddi, scanditi, protocollari. Quella Giustizia, che grazie a questi uomini più volte è riuscita a dare risposte estremamente serie e talvolta inquietanti a interrogativi apparentemente innocui per una buona fetta di persone, del tipo, “oh, ma hanno aperto un nuovo centro scommesse?” oppure “oh, ma hai cambiato marca del caffè?” o ancora “oh, ma hai visto ‘ste nuove marche di carburanti?”.
Poi però c’è l’altra “giustizia”. Quella su cui il condannato negli anni del “mi sono fatto da solo” ha costruito parte della sua fortuna. Quella che all’apice del suo strapotere politico/imprenditoriale l’ha risucchiato in un vortice che non era più capace di controllare. Quella che alla lunga, lontano dai palazzi dorati, dalle festicciole con le Ruby, le Minetti e il puttanaio di turno (senza offesa per le prostitute che in fin dei conti stavano lavorando) diventa un misero strumento nelle mani di chi, ossessionato da brama di potere, di fama o, nel più becero dei casi, di ricchezza, decide di servirsene per demolire i propri avversari. Avversari che però, contrariamente a quanto si vuole far credere, non si trovano quasi mai dall’altro lato della barricata bensì tra le proprie fila.
Una guerra intestina che spesso, grazie anche al prezioso contributo di improbabili operatori dell’informazione, si è espressa attraverso termini come “giustizia a orologeria” piuttosto che “accanimento giudiziario” o anche “toghe rosse”, calando gli autori delle più svariate inchieste a carico di questo o di quel politico in un teatrino assolutamente indegno del ruolo che il mondo della Giustizia dovrebbe occupare nella vita del Paese.
Che dire? Forse è vero che il sistema giudiziario ha bisogno di essere riformato, ma se una parte degli attori che lo rappresentano continuerà a prestare il fianco alle farse di una politica che poi su questa necessità di riforma ci costruisce vere e proprie campagne elettorali (basta chiedersi adesso chi preso di mira il “celeste” in vista delle Europee), allora non saranno sufficienti tutte i ragionamenti e i codici di questo mondo se non accompagnati dal rispetto dei propri ruoli, dei propri diritti e soprattutto dei propri doveri.
Vincenzo Viglione