di Mario De Michele

Agli intellettuali come Gianni Cerchia bastano poche righe per affondare la lama del rasoio nel cuore dei problemi, per analizzare con lucidità le anomalie del potere, per squarciare il velo di Maya dell’ipocrisia. All’indomani dell’assoluzione di Enrico Fabozzi, ex sindaco di Villa Literno e già consiliare regionale, sentenziata dopo un calvario giudiziario e umano di 14 anni, il direttore del dipartimento di Economia dell’università del Molise ha postato sul suo profilo Fb un commento breve ma tagliente. “Enrico Fabozzi, – si legge nel post di Cerchia – dopo molti anni di amarezze e di travaglio, una vita privata messa in discussione, una vita pubblica distrutta, è stato riconosciuto innocente. Eppure ci fu un magistrato che ne dava per scontata la colpevolezza, spacciandola per certezza in un suo libro autocelebrativo. Eppure ci furono giornalisti e parlamentari che fecero cose assai analoghe, scegliendo un nemico per giustificare se stessi e alimentare la propria credibilità. Chi risarcirà Enrico? Chi ricorderà i nomi del magistrato, del giornalista, dei parlamentari, nella speranza che si vergognino almeno un po’?”.

Quelle del prof Cerchia sono “considerazioni inattuali”, per citare il filosofo del martello. Da anni, ormai decenni, il circo mediatico si abbevera alla fonte di un giustizialismo forcaiolo da Santa Inquisizione. Da anni, ormai decenni, la politica si è svalorizzata in politique politicienne, abdicando al suo ruolo di classe dirigente e accucciandosi come un cagnolino di compagnia ai piedi di una (in)giustizia sempre più sommaria. “Servono sentenze esemplari”, blaterano i paladini della gogna pubblica. Purtroppo, molti di loro oggi siedono tra i banchi del Parlamento, affollato da miracolati, spesso appena alfabetizzati, e da predestinati, scelti dai capicorrente. Deputati e senatori che invece di agire e legiferare in nome della Costituzione la sfregiano in continuazione, da un lato per ignoranza crassa, dall’altro per assecondare gli istinti viscerali di un popolo ridotto sempre più a popolino. La democrazia spazzata via dalla demagogia. Il popolarismo riposto nel cassetto per fare spazio al populismo. Da qui il ribaltamento del dettato costituzionale sulla presunzione di innocenza in presunzione di colpevolezza, che sui media assume la forma barbara di colpevolezza a priori, a prescindere dal processo. Chi è attinto da un avviso di garanzia (per l’indagato) è già condannato, è già un politico o un uomo finito.

Enrico Fabozzi

Ed ecco la vicenda emblematica e drammatica di Enrico Fabozzi. Il 5 novembre 2011 la sua carriera di politico e consigliere regionale è stata stroncata dall’arresto. Concorso esterno per associazione camorristica l’accusa più infamante. Ma “necessaria” per sbatterlo in cella. Fabozzi pericoloso socialmente sulla base delle dichiarazioni di collaboratori della giustizia, abbelliti dalla denominazione più gradevole di pentiti. Saranno pure criminali che per soldi e potere hanno ammazzato innocenti, ma ora sono pentiti. Che mistificazione. Tutti sanno che collaborano con la giustizia per trattare sconti di pena, per non finire in carcere e per rifarsi una vita con i soldi dello Stato. Accusatori di questa risma considerati più credibili di Fabozzi. Da tutti: dai pm e dai media. Anche da amici che oggi si sperticano sui social per manifestare la loro “felicità per Enrico”. Gli stessi che quando Fabozzi era “il mostro” sbattuto in prima pagina non lesinavano manifesti con l’immagine delle manette e delle mazzette. Uomini senza qualità, direbbe Musil. Quaquaraquà, per Sciascia. Senza nemmeno la dignità di chiedere scusa, senza un barlume di moralità per ammettere di aver sbagliato. Fabozzi li avrebbe perdonato. Il risentimento non gli appartiene, neppure il senso di vendetta. Lui, sì, e chi lo conosce lo sa bene, è un uomo di qualità. Ma la nostra è l’epoca dei quaquaraquà, degli opportunisti, dei pavenu e dei peones.

Da intellettuale il professor Cerchia ha colto pienamente la temperie di questi anni decadenti. Il suo j’accuse risale la corrente del conformismo. È una critica che parte da Fabozzi per togliere ossigeno agli organi vitali del giustizialismo, dell’imbarbarimento socio-culturale in cui siano sprofondati. “Eppure ci fu un magistrato – riproponiamo le sue domande – che ne dava per scontata la colpevolezza, spacciandola per certezza in un suo libro autocelebrativo. Eppure ci furono giornalisti e parlamentari che fecero cose assai analoghe, scegliendo un nemico per giustificare se stessi e alimentare la propria credibilità. Chi risarcirà Enrico? Chi ricorderà i nomi del magistrato, del giornalista, dei parlamentari, nella speranza che si vergognino almeno un po’?”.

I forcaioli non conoscono vergogna. I finti paladini della legalità nemmeno. Peggio ancora i professionisti dell’antimafia. Quelle di Cerchia sono domande retoriche, ovviamente. Nessuno risarcirà Enrico e la sua famiglia. Nessuno ricorderà i nomi dei magistrati, dei giornalisti e dei parlamentari. Nessuno avrà il coraggio di ammettere di aver sbagliato. E da domani avanti il prossimo. The show must go on.

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