Pochi minuti prima del consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano chiude pragmaticamente la partita. «Voglio essere chiaro: è molto probabile che i giudici disapplicheranno anche il decreto». Si tratta di un solo articolo con la lista dei Paesi sicuri, non dell’intreccio normativo creativo – e ostile alle toghe – ipotizzato alla vigilia. È la riduzione del danno, perché evita la deflagrazione del conflitto con il Colle. Ed è proprio la moral suasion del Quirinale a spingere l’esecutivo al varo di un “decreto mini”: il testo non mette infatti al riparo da nuove sentenze che negano i trattenimenti. Giorgia Meloni acconsente comunque: «Andiamo avanti, non possiamo non lanciare un segnale politico». Che molto si stesse muovendo è chiaro fin dal mattino. Mantovano è impegnato nell’opera di tessitura con il Colle, lunga molte ore. Ha ingaggiato gli uffici giuridici della presidenza del Consiglio, tenendo fuori tutti gli altri: nessuna riunione con i capi di gabinetto dei ministeri, nessun testo diffuso ai ministri. Mentre gli uffici del Colle lavorano a pieno ritmo, Sergio Mattarella tace. Ma, come trapela da Palazzo Chigi, non avrebbe gradito l’escalation di proposte e forzature – circolate negli ultimi giorni – che andavano contro l’Europa e contro la magistratura. Rese ancora meno digeribili dai propositi di riformare la Costituzione enunciati ieri su Repubblica da Ignazio La Russa. Per questo, il capo dello Stato avrebbe fatto valere il peso del suo orientamento. Non è detto che la frenata dell’esecutivo basti. Solo oggi Mattarella vedrà il testo definitivo del governo. Se dovesse davvero limitarsi a contenere la mera elencazione di diciannove Paesi ritenuti sicuri, trapela, potrebbe superare il vaglio del presidente della Repubblica. E verosimilmente non impedirebbe ai giudici di continuare a ritenere che a prevalere sia il diritto comunitario. Saltano invece le ipotesi più ardite: quelle che puntavano a estromettere i tribunali per l’immigrazione – sostituendoli con i giudici di pace o le Corti d’Appello – e quelle che prevedevano nuove regole per costringere i migranti a restare in Albania.

È il risultato dell’aspro confronto tra gli uffici: nel testo solo l’elenco con diciannove Paesi in cui consentire il rimpatrio. È Mantovano a spiegare il problema a Meloni, dopo aver consultato diversi giuristi ed essersi confrontato anche con Francesco Marini, consigliere giuridico candidato alla Consulta. Le direttive europee, è l’analisi, attribuiscono al singolo Paese membro dell’Unione la titolarità della scelta della lista di Paesi sicuri. Ma garantiscono nello stesso tempo ai giudici la valutazione dei singoli casi e gli eventuali rischi per il migrante. E dunque, si torna indietro, al punto di partenza: il magistrato è pienamente legittimato a disapplicare un rimpatrio. Valeva per il decreto interministeriale, varrà per il decreto varato ieri. Che, sostanzialmente, potrebbe non servire a nulla. Serve però a Meloni, politicamente. Perché mette la premier nelle condizioni di gridare allo scandalo al prossimo pronunciamento di un magistrato. E di attribuire ai giudici la responsabilità di avversare le politiche sull’immigrazione decise dall’esecutivo, rendendo così inutilizzabile il centro in Albania. Per Meloni è proprio questo il terreno migliore per guadagnare consenso e distrarre dai guai della legge di bilancio. Nelle ore in cui Mantovano tratta con il Colle, la premier lascia trapelare altre dure parole d’ordine contro le toghe. Sostiene che alla base dello scontro sull’hub albanese ci sia in realtà la battaglia ingaggiata da Magistratura democratica contro il governo. Che la vera posta in gioco sia la separazione delle carriere. E che non sia disposta ad accettare il compromesso che le avrebbero proposto dal fronte della magistratura alcuni “ambasciatori”: va bene la riforma, a patto che si eviti il meccanismo del sorteggio del Csm. Meloni sarebbe però convinta ad andare avanti, perché «soltanto così si può togliere potere alle correnti». Minacce politiche. Propaganda. E voglia di mettere pressione al potere giudiziario. Anche perché i sondaggi riferiscono di un lieve calo nel consenso: Fratelli d’Italia, riporta YouTrend, scende al 28,2%(-0,2%). Né bastano una serie di slide che vantano i presunti successi del governo nei primi due anni di vita. Per dribblare questa difficoltà, la leader annulla la programmata conferenza stampa prevista per questa mattina. Ufficialmente per impegni istituzionali di Antonio Tajani, che presiede un G7 ministeriale. In pratica, per evitare domande scomode sul nuovo decreto Albania. E perché la legge di bilancio, nonostante gli squillanti annunci, non è ancora stata firmata.

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