Sui rendiconti del partito da inviare a Roma per ottenere i rimborsi elettorali c’é la sua firma accanto a quella di Francesco Belsito. Una firma apposta nella consapevolezza della gestione, spesso ‘creativa’ per non dire irregolare, delle spese da parte dell’ex tesoriere. E così anche Umberto Bossi,
il leader della Lega, finisce indagato per truffa ai danni dello Stato nell’inchiesta della Procura di Milano sui fondi del Carroccio. Indagati anche i suoi due figli, Renzo il ‘Trota’ e Riccardo, accusati di appropriazione indebita, e il senatore Piergiorgio Stiffoni, che invece deve rispondere di peculato: avrebbe usato per sé il denaro depositato sul conto del gruppo a Palazzo Madama. La nuova svolta nell’indagine, che fa dunque un salto di qualità, è arrivata oggi prima dell’ora di pranzo quando al ‘senatur’, che si trovava da solo nel suo ufficio in via Bellerio, i militari della Gdf hanno consegnato un’informazione di garanzia.
Tre paginette firmate dal Procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini, per comunicargli che, in qualità di segretario federale e, dunque legale rappresentante del partito, è arrivato il momento di nominare un difensore, in quanto è sotto indagine assieme a colui al quale ha affidato il delicato compito di amministrare i soldi del movimento. La contestazione: un presunto sperpero di denaro pubblico per una cifra che si aggira attorno ai 18 milioni di euro, tant’é la somma dei rimborsi elettorali liquidata lo scorso agosto da Camera e Senato in base a un rendiconto ritenuto non veritiero, firmato da Belsito e controfirmato da Bossi. Un rendiconto redatto con buona pace della legge del 1999 che quei rimborsi, così come i finanziamenti ai partiti, dovrebbe regolare e che ora in molti chiedono di cancellare.
A convincere i magistrati milanesi ad indagare il ‘Capo’ è stata una serie di ‘indizi’ venuti a galla dai documenti raccolti nel corso dell’indagine, dalle intercettazioni e dalle dichiarazioni messe a verbale da Belsito e dall’allora suo ‘braccio destro’ Nadia Dagrada. Oltre ai rendiconti controfirmati da Bossi, ci sono riferimenti anche scritti sulla documentazione contabile acquisita che dicono che il ‘senatur’ avrebbe autorizzato a voce quelle spese per i pm impossibili da giustificare sotto il capitolo attività politica. Basti pensare a una delle tante lettere spuntate dalla cartelletta ‘The family’, sequestrata a Belsito, in cui Riccardo Bossi, nel fare i conti delle sue ‘uscite’ personali all’ex tesoriere, aggiunge di averne “parlato con papà”.
E poi ancora quei dialoghi intercettati tra Belsito e la Dagrada che hanno fatto un po’ da canovaccio in questa vicenda di malagestione dei soldi pubblici, laddove, come hanno annotato gli investigatori, “entrambi convergono che è Bossi che deve autorizzare” e “che lui sa bene cosa rischia”. Oppure quando, a proposito degli investimenti a Cipro e Tanzania, l’allora amministratore parla di un “capo (…) molto nervoso perché ha paura che i soldi non rientrano”. Infine, le affermazioni rese agli inquirenti.
Belsito interrogato qualche settimana aveva detto che Umberto Bossi sarebbe stato avvisato delle spese “più significative” effettuate per i suoi familiari, mentre Nadia Dagrada sentita come testimone aveva ricordato non solo come il leader della Lega firmasse i rendiconti, ma anche un episodio: “Belsito mi ha sicuramente detto di aver registrato un suo colloquio con l’onorevole Bossi, colloquio nel quale aveva ‘ricordato’ al segretario onorevole Bossi tutte le spese sostenute nell’interesse personale della famiglia (..) con i soldi provenienti dal finanziamento pubblico. Non so se abbia effettuato tale registrazione”, che avrebbe voluto utilizzare, a caso ormai scoppiato, “come strumento di pressione dal momento che volevano farlo fuori”.