Dopo l’8 settembre, consumatosi sull’elezione del Capo dello Stato e conclusosi con le dimissioni di Pier Luigi Bersani, il Pd andrà da domani, in direzione, al suo vero congresso. La conta in occasione del voto di fiducia su chi sosterrà il governo e chi si chiamerà fuori sarà lo show down di una scissione che in pochi, in questo momento, escludono. Un bivio a cui il Pd arriva acefalo – la reggenza dovrebbe essere affidata a Enrico Letta con un comitato collegiale – e terremotato da tensioni fortissime, difficili da assorbire come testimonia oggi lo sfogo di Massimo D’Alema contro “i calunniatori” che lo accusano di “aver affossato Prodi”.

Intanto, il giovane turco Matteo Orfini, e membro uscente della segreteria, che voterà no ad un governo Pd-Pdl, sfida Renzi annuncia che proporrà domani in direzione la sua candidatura alla presidenza del Consiglio. Una candidatura che Andrea Orlando, altro membro uscente della Segreteria del partito, rincara: “Per la presidenza del Consiglio si può pensare ad una personalità terza e di grande profilo istutuzionale oppure ad un leader politico. E Renzi rientra in quest’ultimo ruolo”. Il diretto interessato comunque frena spiegando che non è questo il suo momento. Sarà Enrico Letta a cercare domani di tenere a bada gli animi e di cercare di far ripartire un partito in cui dominano accuse e sospetti. Pier Luigi Bersani, a quanto si apprende, non dovrebbe tenere la relazione introduttiva così come ha già fatto sapere che non è disposto a guidare da segretario dimissionario il Pd, nonostante in molti glielo abbiano chiesto, da Dario Franceschini a Giuseppe Fioroni. Ma né la data di anticipo del congresso né il comitato di reggenti, guidato dal vicesegretario, sembra, a quanto si apprende, che saranno messi ai voti della riunione. Alla quale parteciperà anche Matteo Renzi che, convinto della necessità di “rifondare” il Pd, si butta nella mischia interna in vista della battaglia congressuale. Al centro del confronto, già accesissimo, ci sarà il via libera ad un governo di larghe intese. “Napolitano ci ha ‘commissariati’, non abbiamo alternative”, è il ragionamento portato avanti dai fautori della necessità di un governo politico: Enrico Letta, che non dovrebbe comunque entrare nell’esecutivo, Dario Franceschini, Anna Finocchiaro, Giuseppe Fioroni. Ineluttabilità non condivisa in parte da Rosy Bindi e del tutto dalla sinistra del partito, che va da Sergio Cofferati ai ‘giovani turchi’ fino all’area riunita intorno a Pippo Civati. L’ex consigliere lombardo, già in rotta sul niet del Pd a Stefano Rodotà, nega di voler lasciare il Pd per Sel ma contrattacca: “Si parla molto di ‘traditori’, ma state attenti: perché i soliti protagonisti della politica italiana che ora chiamate così poi potreste ritrovarvi, tra qualche ora, a chiamarli ‘ministri”. E sui traditori si è aperta nel Pd una vera e propria faida: oggi Massimo D’Alema annuncia querele contro chi lo calunnia di aver affossato Romano Prodi semmai la colpa è di chi “lo ha candidato in modo assurdo”. In un Pd in balia di correnti e rancori, il timore è che neanche un voto a maggioranza in direzione possa frenare un’emorragia di no durante la fiducia. Il ‘giovane turco’ Matteo Orfini lo dice chiaramente: “Io sono contrario ad un patto Pd-Pdl, se sarà così voterò contro perché il voto di fiducia é un voto di coscienza”. Non la pensa così Andrea Orlando, anche lui dell’area gauchista del partito, ma la paura di una fuga di voti è altissima come si desume dalla cautela di Anna Finocchiaro: “Elezioni più lontane? Prima voglio contare i voti di fiducia e poi mi esprimo”. Convintissimo della necessità di un governo, pur a durata limitata, è Matteo Renzi. In ogni caso, nello schema che gira in ambienti parlamentari, il Pd sarebbe chiamato a impegnare alcune delle sue punte, magari non più presenti in parlamento e impegnati nella battaglia congressuale del Pd. E i nomi che girano sono quelli di Luciano Violante, Walter Veltroni, Sergio Mattarella e Pierluigi Castagnetti.

 

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