Cinque miliardi di “sacrifici”, come li chiama Giancarlo Giorgetti. Il conto è pronto. I soldi che il Tesoro punta a raccogliere da banche, imprese e ministeri non basteranno comunque a coprire le spese della manovra. Per arrivare all’importo totale di 22-23 miliardi ne mancherebbero comunque cinque. Ma da qualche parte bisogna pur iniziare, è tornato a insistere nelle ultime ore il ministro dell’Economia. Crucciato per il trattamento che gli hanno riservato Giorgia Meloni e Matteo Salvini dopo l’intervista a Bloomberg in cui ha parlato della necessità di tassare i profitti e i ricavi delle imprese. Tutte. E di più. Ecco, i tormenti del governo sono tutti avvolti in queste dinamiche: prima ancora della preoccupazione per le coperture insufficienti, deve trovare una quadra sugli strumenti da utilizzare per racimolare le risorse che mancano. Ieri è toccato ad Antonio Tajani stringere Giorgetti nel suo isolamento. “Siamo contrarissimi a imporre nuove tasse, finchè saremo noi al governo non ci saranno”, ha tuonato il leader di Forza Italia. Banche o imprese che siano, poco importa: gli azzurri non vogliono sentire parlare di nuovi balzelli. E quindi rigettano l’ipotesi a cui stanno lavorando i tecnici del Mef: un’addizionale Ires che da un giorno all’altro si è arricchita di un ulteriore elemento che attesta l’esistenza del cantiere. La maggiorazione allo studio oscilla tra lo 0,5% e l’1 per cento. Non è un tecnicismo: è, al contrario, la possibilità di ottenere un contributo più alto da banche e imprese. In questo modo si otterrebbero più dei cinque miliardi che a ieri sera erano agganciati a misure più soft.

Ma è il mezzo stesso ad essere contestato dalla maggioranza. Tra l’altro lo stop di FI a Giorgetti non è un atto isolato. Anche la premier sarebbe ritornata a manifestare il suo malumore. I mugugni di banchieri e imprenditori continuano a farsi sentire a Palazzo Chigi. E per questo la presidente del Consiglio ha provato a sparigliare le carte mandando avanti Lucia Albano, la sottosegretaria al Mef in quota Fratelli d’Italia. A lei è stato affidato il compito di spostare la discussione sui colossi internazionali. Detto, fatto. Dai microfoni di Sky Tg24, la sottosegretaria ha annunciato che il governo chiederà “il concorso di tutti quelli che ne hanno la possibilità”, come le “grandi imprese, per esempio quelle dell’e-commerce” oppure quelle che hanno “sede all’estero” che fanno utili in Italia e per le quali sussistono di fatto delle forme di “elusione”. In pratica un incremento della web tax italiana, l’imposta del 3% sui ricavi delle transazioni Internet per le imprese digitali con fatturati milionari. Nel ragionamento di alcuni parlamentari di FdI risulterebbe indolore perché andrebbe a colpire i colossi del web. Sarebbe più facile da giustificare, anche se non esente da effetti collaterali dopo la “carezza” di Meloni a BlackRock. Per non parlare dell’interesse di Elon Musk per l’Italia e degli investimenti di Microsoft. In ogni caso Meloni resta contraria allo schema italiano di Giorgetti. Senza tasse, però, la ricerca delle coperture per la Finanziaria si fa più difficile. Al momento si punta a raccogliere dalle banche tra 800 milioni e 1 miliardo: la misura più quotata è una modifica al trattamento fiscale delle imposte differite attive (Dta). L’apertura di Confindustria alla revisione delle tax expenditures destinate alle imprese potrebbe aumentare la dote che il governo pensa di ottenere dalla revisione generale delle agevolazioni fiscali: l’asticella potrebbe arrivare a 1,5 miliardi. Poi c’è la spending review. Dopo la strigliata di Meloni e Giorgetti ai ministri durante l’ultimo Cdm, ora l’obiettivo è recuperare qualche centinaia di milioni in più rispetto ai 2 miliardi messi in conto per quest’anno.

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