Roberto Battaglia cominciò a parlare con gli inquirenti pochi giorni dopo l’arresto di Michele Zagaria, avvenuto il 7 dicembre 2011. “Avevo terrore e paura di essere ammazzato”, aveva detto ai magistrati della DDA di Napoli. Dopo neanche un mese e mezzo due emissari del clan fecero visita alla sua azienda bufalina di Caiazzo intimandogli di tacere, ma l’ imprenditore aveva confermato le accuse a carico del fratelli del boss, che furono arrestati nel novembre 2012. Il racconto di Battaglia partiva dal 1998, quando l’imprenditore chiede e ottiene da Benenati un prestito di 50 milioni di vecchie lire, pattuendo un interesse mensile del 15% 180% annuo). Per far fronte agli interessi, Battaglia si rivolse ad un altro usuraio di Maddaloni, ma il debito crebbe fino a raggiungere la cifra di quasi 300 milioni di lire. Fu a questo punto che subentrarono gli esponenti del clan dei Casalesi, prima Nicola Diana, titolare di un’altra concessionaria (già posta sotto sequestro dalla DDA) cui Benenati girò gli assegni di Battaglia. A fine giugno 2000 gli affiliati del clan Zagaria, che rispondono ai tre fratelli del boss allora latitante, si presentarono a Battaglia come i nuovi titolari del credito. L’ imprenditore chiese una dilazione non concessa, e fu costretto a vendere le bufale e molti macchinari della sua azienda consegnando in pochi giorni 80 milioni di lire. Fu malmenato nell’ ufficio di Pasquale Zagaria, e continuerà a pagare fino alla fine del 2005 andando anche in protesto per alcune cambiali non onorate. In totale l’ imprenditore, tra il 1998 ed il 2000 avrebbe corrisposto per il debito originario di 50 milioni di lire una somma pari ad 1,3 miliardi di lire. Un vero e proprio calvario anche con la burocrazia quello vissuto da Battaglia. Qualche mese dopo il Ministero dell’Interno gli ridusse la scorta entro i confini della Regione Campania, ma il Tar del Lazio ripristinò la vigilanza su tutto il territorio nazionale. “Inoltre – afferma l’ imprenditore – sono ancora in attesa di circa 800 mila euro di risarcimento dal Fondo Antiracket. Denunciare il pizzo e la camorra in Italia non conviene”, conclude Battaglia.