Se è vero che il dato delle persone morte di Covid negli ultimi due anni è ormai noto, resta invece quasi indefinito il numero dei pazienti che avevano bisogno di cure ma alla fine non ce l’hanno fatta per mancanza di posti letto. Tra i malati che hanno pagato più di tutti il conto di una mancata programmazione e della carenza dei medici, ci sono senz’altro i cardiopatici. Secondo la Società Italiana di Cardiologia (Sic), fra novembre 2021 e gennaio 2022, il 68% delle strutture ospedaliere ha tagliato il numero di interventi e dei ricoveri, il 50% ha diminuito gli esami diagnostici e il 45% ha ridotto visite ambulatoriali. Nei 45 ospedali presi in considerazione dall’indagine della Sic su tutto il territorio nazionale in due diverse fasi della pandemia, si osserva «un grave ridimensionamento dell’assistenza cardiologica, inclusa una riduzione del 22% dei posti nelle Unità di terapie intensive cardiologiche». La prospettiva è purtroppo impietosa: «la mortalità per infarto e ictus – denunciano dalla Sic – rischia di tornare ai livelli di 20 anni fa». Senza contare che ormai la platea delle persone che hanno bisogno di cure è aumentata, visto che per i guariti dal Covid, come emerge da uno studio pubblicato su Nature Medicine e condotto su più di 150mila pazienti, il rischio di patologie cardiovascolari aumenta anche in chi ha meno di 65 anni ed è senza fattori di rischio: si va dal 52% di probabilità in più di ictus al 72% di scompenso cardiaco. «Nella fase iniziale della pandemia – spiega Carlo Di Mario, direttore di interventistica cardiologica strutturale dell’azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze e membro della Sic – le terapie intensive si sono riempite di malati Covid, per cui alcuni interventi destinati agli altri pazienti non si sono potuti più fare. A ciò si aggiunge la mancanza di posti letto e di infermieri che venivano spostati nei reparti Covid». Molti pazienti cardiopatici, in sostanza, non potendo farsi curare o anche solo visitare in un ambulatorio, purtroppo alla fine non ce l’hanno fatta. «L’intervento che è stato relativamente preservato – precisa Di Mario – è stato l’acuzie, se cioè la persona arrivava con un infarto acuto noi abbiamo sempre fornito immediatamente il trattamento».
Ma la situazione per molti è stata ingestibile e così le difficoltà di accedere ad una struttura ospedaliera hanno rallentato la presa in carico. «Nella primissima fase della pandemia – ricorda il cardiologo – quando si raccomandava di stare a casa, la gente ha interpretato questa raccomandazione troppo letteralmente e molte volte il paziente che non si faceva visitare, non chiamava l’ambulanza, aveva l’infarto a casa e poi moriva. Nella seconda fase epidemica, c’è stato invece un miglioramento della presa in carico e sul paziente acuto siamo riusciti a fronteggiare l’emergenza abbastanza bene. Ricordiamo che l’angina, per esempio, è una patologia che ha potenzialità di progressione elevata e soprattutto è imprevedibile nel suo rischio di destabilizzazione». La tempestività, in questi casi, può fare la differenza tra la vita e la morte. «Sicuramente noi abbiamo avuto un incremento di decessi che è difficile da quantizzare – ammette Di Mario – Alcuni pazienti non si sono fatti vedere nei nostri ambulatori perché erano meno accessibili, oppure perché pur essendo stati messi in lista di attesa poi non sono stati chiamati per fare l’angioplastica, la coronarografia, l’ecostress, e tutti gli altri esami necessari. Hanno insomma subito dei ritardi che hanno pagato con la vita». Rimediare al problema delle liste di attesa e prendere in carico tutti i pazienti che hanno bisogno di un trattamento non è semplice. «Stiamo cercando di fare il nostro meglio – rimarca Di Mario – abbiamo anche proposto qualche meccanismo innovativo per cercare di ridurre i tempi di degenza, che al momento è il nostro fattore limitante ancora di più delle sale. Non dimentichiamo che anche prima della pandemia dovevamo fare i conti con la carenza di medici, di anestesisti, di posti letto e quindi di assistenza. Poi la situazione è peggiorata. Credo insomma che, se siamo fortunati, per smaltire le liste di attesa serviranno almeno 6-9 mesi».