Dal primo gennaio 2023 gli italiani scopriranno che la legge Fornero non è stata abolita, come promesso dalla Lega in campagna elettorale. E che le due vie ordinarie per andare in pensione sono rimaste le stesse: a 67 anni oppure con 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne). Ovvero la pensione di vecchiaia o quella anticipata. Se dunque le regole Fornero non vengono scardinate, la prima manovra del governo Meloni – dopo Quota 100 e Quota 102 – introduce l’ennesima misura transitoria, valida solo per il 2023: Quota 103. E proroga per un altro anno Ape Sociale e Opzione Donna. Ma con paletti e penalizzazioni. Queste tre misure – secondo il governo – dovrebbero favorire l’uscita di 64 mila lavoratori, il 12% appena dei pensionamenti ordinari di ogni anno in Italia. La Cgil contesta le cifre e prevede poco più di 25 mila uscite complessive. Il governo ha stanziato per le tre misure 572 milioni. Per la Cgil se ne spenderanno 176 milioni, meno di un terzo. I canali ordinari di uscita dal lavoro rimangono dunque saldi. Anche nel 2023 si potrà andare in pensione di vecchiaia, a patto di avere almeno 67 anni di età e 20 di contributi. Oppure in pensione anticipata, con 42 anni e 10 mesi di contributi a prescindere dall’età (un anno in meno per le donne). Il tentativo della Lega di introdurre Quota 41 secca non è riuscito. In realtà questo canale esiste già, seppur riservato ai soli lavoratori precoci (quanti cioè hanno almeno un anno di contributi prima dei 19 anni) e ricadono nelle categorie dell’Ape sociale (disoccupati, caregiver, invalidi, professioni usuranti). Estendere Quota 41 a tutti sarebbe stato molto costoso. Il governo allora ha ripiegato su Quota 103: in pensione con 41 anni di contributi, ma anche almeno 62 anni di età, requisiti da avere entro il 31 dicembre 2023 (poi si può scegliere di andare in pensione anche dopo). Per contenere ancora la spesa, si è deciso poi di limitare anche l’importo della pensione. I nuovi quotisti andranno un po’ prima in pensione (dieci mesi gli uomini, un anno e 10 mesi le donne, poche però hanno così tanti contributi). Ma dovranno accontentarsi di un assegno al massimo di 2.819 euro lordi al mese (36.643 euro lordi all’anno), pari cioè a 5 volte il minimo. E questo sacrificio durerà dai 62 anni ai 67 anni, l’età per l’uscita di vecchiaia. Solo dopo l’assegno, se più alto, sarà incassato per intero. Un limite di cui tener conto.

Un altro disincentivo a scegliere Quota 103 è nella stessa manovra del governo Meloni, ovvero una versione soft del “bonus Maroni”. Il lavoratore con i requisiti per Quota 103 (62+41) può scegliere di non andare in pensione, restare al lavoro e prendere una busta paga più pesante del 9,19% lordo (poco più dell’8% netto), pari alla quota di contributi a suo carico che il datore versa all’Inps, fino a quando non raggiunge il requisito ordinario per l’uscita (41 anni e 10 mesi, un anno in più per le donne). Questo significa però che la pensione futura sarà un po’ più bassa, perché i contributi del lavoratore (non anche quelli dell’impresa, come nel bonus Maroni) vengono “consumati” nello stipendio. Una scelta. Il canale di uscita anticipato delle donne viene stravolto e penalizzato. Nel 2023 l’età sale a 60 anni (dai 58-59 degli anni passati) con 35 di contributi: requisiti da possedere entro il 31 dicembre del 2022. Si scende a 59 anni solo per le donne con un figlio e a 58 anni con due figli. Non solo. Potranno scegliere quest’opzione solo le donne caregiver da almeno 6 mesi, disabili al 74% e licenziate o dipendenti di aziende in crisi (in quest’ultimo caso possono uscire a 58 anni senza il vincolo dei figli). Il governo stanzia appena 21 milioni per 2.900 potenziali beneficiarie nel 2023. Come sempre, l’assegno è ricalcolato tutto con il sistema contributivo. E questo comporta un taglio fino al 30%. Le finestre di accesso sono di 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e 18 mesi per le autonome. Quindi nel 2023 usciranno solo le autonome che hanno maturato i requisiti nei primi 5 mesi del 2022. In vigore dal primo maggio 2017, l’Ape sociale viene rinnovata per un altro anno ancora, senza modifiche. Si tratta di un’indennità ponte (non una pensione) che traghetta i lavoratori più fragili verso la pensione, quindi dai 63 anni fino ai 67 oppure al raggiungimento del requisito per l’uscita anticipata (42 o 41 anni e 10 mesi). L’Ape spetta ai disoccupati, ai caregiver, agli invalidi al 74% con almeno 30 anni di contributi. E ai lavoratori cosiddetti “gravosi” con 36 anni di contributi e 7 degli ultimi 10 anni oppure 6 degli ultimi 7 anni impiegati in attività gravose (i settori sono dettagliati dalla legge). Nel caso di edili e ceramisti bastano 32 anni di contributi. L’elenco dei settori gravosi è stato allargato dal governo Draghi, ma ritenuto ancora insufficiente dai sindacati. Il governo Meloni stanzia 64 milioni nel 2023 per l’Ape sociale (scontando i risparmi degli anni precedenti quando la misura ha avuto un tiraggio inferiore) per 20 mila potenziali beneficiari.

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