Per incontrarsi bisogna arrivare in mezzo alla campagna, dove le stradine si restringono e le case della periferia già non si vedono più. Appuntamento vicino a un capannone semidiroccato, circondato da vecchie baracche di legno e plastica, dove forse passano la notte i migranti che in alcune stagioni raccolgono gli ortaggi nei campi della zona. «Meglio che nessuno sappia che sono io ora a raccontare di questi strani incontri. Però se ci ripenso oggi devo ammettere che a me sembra davvero molto strano che tra le persone che ogni giorno entravano in quel bar nessuno sapesse chi era quell’uomo. Io sono di Trapani, eppure qualche sospetto lo avevo avuto, ma gli altri secondo me sapevano molto bene chi avessero di fronte». Il quarantenne che conferma i sospetti che i carabinieri hanno da giorni, e cioè che in tanti in questi mesi abbiano incontrato Matteo Messina Denaro e abbiano sempre fatto finta di nulla, ha lavorato come manovale in un cantiere non lontano dal covo-alcova in cui il boss ha trascorso gli ultimi sei mesi. Si chiama Giovanni, si è sposato a ottobre e ha una figlia di 4 anni. «Io sono di Trapani e adesso per fortuna ho cambiato lavoro: ero rimasto disoccupato e avevo accettato un contratto di sei mesi con un’impresa edile, ma le condizioni di lavoro erano inaccettabili. A Campobello ho fatto parte di una squadra che ha ristrutturato una casa antica. Ogni mattina mi fermavo al bar per la colazione e quell’uomo con gli occhiali ambrati l’ho incontrato più di una volta, sicuramente a giugno e luglio. Quando entrava tutti stavano zitti. Mi aveva colpito questo particolare. Indossava delle camicie abbastanza strane, direi sgargianti. A un certo punto era diventato grasso. Ricordavo questi occhiali strani, scuri. Aveva un tono di voce molto basso. Pensavo fosse un personaggio strano, forse uno potente o ricco, ma non sapevo chi fosse, non immaginavo che fosse il super latitante». Le frequentazioni quasi quotidiane dello spietato stragista di Castelvetrano non erano chiacchiere in libertà fatte circolare dopo la cattura. È vero che usciva di casa, che andava a prendere il caffè o a fare la spesa e che qualche volta è andato persino all’autolavaggio, a bordo di quell’Alfa Giulietta nera che i carabinieri ancora cercano e che sembra sparita nel nulla. «Io sono sicuro che le altre persone che erano dentro al bar erano perfettamente coscienti di chi fosse quel cliente silenzioso, che sorrideva e che ringraziava di continuo. Parlava in italiano, non ho mai sentito da lui parole in dialetto locale. Una volta avevo osato chiedere a una cameriera, ma lei mi ha risposto abbastanza scocciata. Le avevo chiesto se fosse il sindaco del paese e lei mi aveva detto che invece si trattava di un medico». E questa era proprio la versione che il boss aveva fatto circolare tra quelli che se l’erano trovati di fronte e che avevano mostrato troppa curiosità: «Sono di Palermo e sono in pensione», diceva. «Io capisco che qui siamo tutti abituati a farci gli affari nostri e con questi personaggi è molto meglio. Però visto il male che quest’uomo ha provocato all’Italia e alla nostra regione trovo inaccettabile che in tanti abbiano fatto finta di non averlo visto mentre si godeva il caffè caldo».