“Questa volta è diverso”. L’ottimismo rimbalza sui media israeliani e arabi per l’ultimo colloquio al Cairo tra i negoziatori chiamati a trovare un punto comune per mettere fine, almeno temporaneamente, alle ostilità a Gaza e riportare a casa gli ostaggi israeliani in mano ad Hamas. La proposta in esame è quella americana ed è concreta: secondo fonti egiziane citate dai media qatarini, si lavora a sei settimane di tregua in cambio del rilascio di 40 ostaggi, con un parziale ritorno di sfollati palestinesi nella parte nord della Striscia. Mentre nell’immediato il capo della Cia William Burns ha chiesto di fermare i combattimenti in tutte le forme durante la festa di Eid al-Fitr, che dura tre giorni a partire da martedì sera e chiude il Ramadan, riferisce l’emittente saudita ‘Al-Sharq’. Durante la pausa per l’Eid, i negoziati in corso al Cairo tra le parti dovrebbero continuare. Se da una parte il Qatar si è detto “ottimista” e una fonte egiziana ha parlato di “grandi progressi” e di “un accordo sui punti principali tra le varie parti”, Israele ha ridimensionato la possibilità di un’intesa imminente: “Ancora non la vediamo all’orizzonte, la distanza tra le parti resta grande”. Un copione già visto negli innumerevoli round di trattative precedenti. Eppure qualcosa sembra muoversi: “La proposta per il rilascio degli ostaggi è stata consegnata ad Hamas, ora aspettiamo la loro risposta e ci potrebbe volere un po’ di tempo”, ha riferito il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana, John Kirby. Una fonte del gruppo palestinese ha confermato che Hamas sta “studiando” l’accordo, che prevede insieme alla tregua di sei settimane la liberazione di donne e bambini israeliani in ostaggio in cambio di “un massimo di 900 prigionieri palestinesi”. E nella sua prima fase prevedrebbe anche il ritorno dei civili palestinesi sfollati nel nord della Striscia e la consegna di “400-500 camion di aiuti alimentari al giorno alla popolazione affamata”. Così il pressing internazionale, da una parte e dall’altra, prova a mettere un freno alla guerra che va avanti da sei mesi e che rischia di allargarsi a tutta la regione. La minaccia di rappresaglia di Teheran per il raid israeliano sul consolato iraniano a Damasco “è ancora attiva”, hanno infatti avvertito gli Usa. E si teme anche per il fronte con il Libano, dove Israele ha affermato di “prepararsi a passare dalla difesa all’attacco” e ha rivendicato l’uccisione di “Ali Ahmed Hassin, comandante delle Forze Radwan dell’organizzazione terroristica Hezbollah nella regione di Hajir”. Di fronte a questo scenario, il pressing statunitense si è concretizzato nell’ultimo colloquio telefonico tra il presidente americano Joe Biden e il premier israeliano Benyamin Netanyahu che sembra aver portato alcuni frutti, con Israele che ha permesso l’ingresso di più aiuti a Gaza – 300 camion nelle ultime 24 ore, un record dall’inizio della guerra – e ordinato il ritiro delle truppe combattenti dai territori meridionali di Khan Yunis, ormai distrutti al 90% secondo al Jazeera. Ma un’operazione di terra su Rafah, ultimo lembo di terra dell’enclave che dà rifugio a 1,5 milioni di sfollati palestinesi, non è ancora esclusa. Anzi, l’ingresso nella regione “accadrà, c’è una data”, ha annunciato il premier israeliano provando così a tenere a bada la frangia più oltranzista del suo esecutivo ma incassando l’ennesima bocciatura dalla Casa Bianca, che ha ribadito la contrarietà di Washington all’operazione. “Se Netanyahu decide di porre fine alla guerra senza un attacco esteso a Rafah per sconfiggere Hamas, non avrà il mandato per continuare a servire come primo ministro”, aveva minacciato in mattinata il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. Prima di lui, il titolare delle Finanze Bezalel Smotrich aveva convocato il suo partito Sionismo religioso per valutare la situazione dopo l’annuncio dell’esercito del ritiro da Khan Yunis. Netanyahu si ritrova così in una difficile posizione, tra l’incudine delle piazze israeliane sempre più gremite per protestare contro la gestione della questione degli ostaggi e il martello delle critiche dell’ultradestra che vorrebbe il pugno di ferro sul sud della Striscia di Gaza. Nel frattempo, almeno due sondaggi hanno rivelato che se si votasse oggi nello Stato ebraico l’attuale coalizione del premier non avrebbe più la maggioranza, mentre il partito del centrista Benny Gantz, Unità nazionale, sarebbe il primo a livello nazionale e alla Knesset.

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