La magistratura vuole accertare la verità, ma “non può farcela da sola”. Avrebbe bisogno dell’aiuto dei cittadini e della politica. Ma “l’anomalia” italiana è proprio questa, “avere da sempre una classe dirigente profondamente compromessa con i poteri criminali,
le cricche, le caste e la corruzione”. Dal palco di Vasto, che ospita la seconda giornata della festa dell’Idv, il Pm di Palermo Antonio Ingroia torna a puntare il dito con forza contro “un certo modo di fare politica che va cambiato”. E contro una classe dirigente che non ha consentito che per 20 anni si facesse luce sulla trattativa ‘Stato-mafia’. Il magistrato, che difende il suo operato (“contro di me attacchi ingiusti e ingenerosi”, io “non cerco consensi”) e quello della Procura di Palermo, viene accolto con grande entusiasmo dal popolo dipietrese. Parla quasi da politico consumato, anche se lui alla domanda su una sua possibile candidatura taglia corto: “Non mi pare che al momento ci siano imminenti decisioni da assumere che riguardino il sottoscritto, pertanto non rispondo”. Spiega che ci fu più di una trattativa: “Ce ne fu una macro tra Stato e mafia, all’interno della quale ce ne furono altre tre ‘micro'”. Ma non vuole mettersi in polemica con il Quirinale. Alla domanda se in Procura si fossero aspettati che il Colle sollevasse conflitto di attribuzione sulle intercettazioni sull’utenza di Nicola Mancino, il Pm risponde secco con un “assolutamente no”, ma poi prende quasi ‘le difese’ di Napolitano puntualizzando i contenuti del ricorso alla Consulta. “Non tocca a me difendere il Capo dello Stato – è la sua premessa – visto che comunque è difeso da mezzo mondo. Ma quando si cominciò ad intercettare Mancino non era ancora noto che fosse indagato”. E anche sulle intercettazioni è cauto. Non si può dire quando potranno essere distrutte, avverte, perché non esiste una norma che indichi tempi certi per la cancellazione di quelle irrilevanti. A chiamare pesantemente in causa il Capo dello Stato, durante la tavola rotonda sulle stragi coordinata da Claudia Fusani de l’Unità, è però il dipietrista Luigi Li Gotti. E il suo intervento viene salutato da una sorta di standing ovation. Le centinaia di militanti che affollano il cortile di Palazzo D’Avalos si alzano in piedi e gridano all’unisono ‘Fuori la mafia dallo Stato!”. “Quando Napolitano chiese, in occasione del ventennale delle stragi, che si facesse di tutto per arrivare all’accertamento della verità – dice con voce rotta dall’emozione Li Gotti – noi ci credemmo”. Ma quando “sapemmo invece che Mancino aveva chiesto aiuto al Colle per non fare il confronto con Martelli e per togliere l’inchiesta a Palermo, noi ci siamo sentiti offesi come cittadini”. Perché è il non accertamento della verità, sottolinea, che “ci offende profondamente”. Poi chiede un applauso per Napolitano, ma ormai l’affondo c’é stato. Ingroia resta però il vero protagonista della giornata di Vasto. Soprattutto quando prende il microfono e si improvvisa giornalista per chiedere ai componenti dell’Antimafia Li Gotti e Fabio Granata (Fli) se per caso la commissione non sia arrivata dopo 20 anni ad occuparsi della trattativa per ‘l’imbarazzò di una “certa classe dirigente” che “ben sapeva” come lo Stato fosse sceso a patti con la mafia. I due sono consapevoli della “verita” e dichiarano che se non riusciranno a scriverla nella relazione dell’Antimafia, lo faranno in quella di minoranza. Ingroia sorride e ribadisce: senza l’aiuto della politica la magistratura da sola non potrà arrivare alla verità. E alla domanda che gli viene rivolta sul fatto che via tweet i cittadini gli chiedono di non andare all’estero, lui rassicura: “Continuerò a far sentire la mia voce anche dal Guatemala”.